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venerdì 17 aprile 2020

La politica del gregge

Ora basta. Nel momento della necessità ci siamo stretti attorno alle Istituzioni, per aiutare - nei limiti del possibile - ospedali sull'orlo del collasso e medici cui lo Stato ha saputo dare grandi pacche sulle spalle, ma non camici e mascherine abbiamo accettato due mesi di quarantena. Ma ora, di fronte ad una sempre più penetrante compressione delle libertà costituzionali, di circolazione, di culto, di impresa, di parola, cui si aggiunge una progressiva estromissione del Parlamento dalla funzione legislativa ed una frantumazione di quella di indirizzo dal governo in una congerie di organismi extra ordinem, il più delle volte rivestiti di nomignoli stranieri, non si può più stare a guardare.
Non voglio ripercorrere qui tutte le forzature all'assetto costituzionale che questo esecutivo, spesso addirittura attraverso atti amministrativi, si è concesso a causa, o con l'occasione, dell'epidemia di Coronavirus, poiché c'è stato chi lo ha fatto prima e assai meglio di me (giudici costituzionali, giuristi, magistrati e avvocati); voglio soltanto rimarcare un punto che è, a mio avviso, particolarmente significativo, perché dà ragione del percorso che ha reso possibile questa deriva e rappresenta uno dei semi avvelenati che potrebbero ulteriormente germogliare in futuro: il rappprto fra libertà di circolazione di cui all'art. 16, Cost. (e, più in generale, libertà personale ex art. 13, Cost.) e tutela della salute (art. 32, Cost.).
In passato, infatti, la dottrina compatta ha riscontrato nell'art. 13, Cost. il primo (e non solo per posizione) dei diritti fondamentali della persona, e nell'art 16, Cost. una sua particolare declinazione, giungendo pertanto a limitare rigorosamente le accettabili "limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità". Secondo Mortati, "occorrono... delle precisazioni circa l'ambito da assegnare alla  norma: ciò che porta a distinguere le ipotesi di malattie lesive solo della sanità di chi ne è colpito da quelle relative a morbi infettivi o contagiosi. Se le prime non consentono interventi coattivi..., le seconde invece non potrebbero in nessun caso rimanere ad essi sottratti". Il che significa - tralasciando il richiamo fermo del costituente al necessario intervento giurisdizionale a tutela del singolo - che le limitazioni cui fa riferimento la Carta sono quelle che riguardano il singolo malato (o una comunità di malati) e non la generalità delle persone sane. Non a caso ormai da due mesi utilizziamo a sproposito il termine "quarantena" e ci prepariamo, nella più completa tranquillità pare, a vedere la nostra privacy travolta da un generalizzato braccialetto elettronico sottoforma di app.
Da dove deriva dunque questo cambio di rotta?
Evidentemente da quell'ingenuo scientismo positivistico che ha fatto facilmente breccia non solo nel senso comune, ma anche nell'elaborazione giuridica, secondo il quale le magnifiche sorti e progressive della medicina potrebbero (dovrebbero?) non solo ritardare quasi indefinitamente la morte (attraverso il farmaco), ma addirittura prevenire la malattia (attraverso la moderna pozione magica, somministrata sottoforma di vaccino).
Si tratta del ribaltamento dei valori proprio dell'ideologia vaccinale dell'immunità di gregge: lo Stato non ritiene più di dover tutelare le persone fragili, per esempio perché anziane, attraverso politiche attive saldamente ancorate ai diritti costituzionalmente garantiti (per dire, abbassando l'età per la pensione di vecchiaia, così da evitare agli ultrasessantenni di stare a continuo contatto con una grande quantità di persone), bensì conculcando le libertà (i diritti fondamentali!) dei sani, il gregge che - in quanto astrattamente passibile di malattia - è perciò stesso immediatamente considerato malato, ove non sia intervenuta a monte la panacea in una siringa. O anche solo conculcando i diritti fondamentali di chi si ritiene di voler proteggere: perché l'idea demente di obbligare a un'ulteriore quaratena forzosa gli ultrasettantenni stride in maniera sorprendente con il diritto (individuale) negativo alla salute.
Questo percorso è chiarissimo nella sentenza della Corte Costituzionale sulla legge Lorenzin, secondo cui l'obbligatorietà dei trattamenti vaccinali (con le conseguenti sanzioni draconiane previste) è giustificato dalla "duplice garanzia, sul piano formale, della riserva di legge in materia di trattamenti sanitari imposti e, sul piano sostanziale, del rispetto in tutti i casi dei «limiti imposti dal rispetto della persona umana», a propria volta riflesso del fondamentale principio personalista (art. 2 Cost.)". Senonché l'argomento prova troppo, perché proprio il principio personalistico non permette di espandere il contenuto dei "doveri" oltre un limite tale che svuoterebbe i relativi "diritti" di "quella autonomia da cui traggono la loro caratteristica" (ancora Mortati).
Checché ne dica la Corte, non c'è alcun dovere a essere gregge. Forse è l'ora di tornare uomini.

domenica 29 dicembre 2019

Quando si prescriverà Bonafede?

Dunque il primo gennaio dovrebbe entrare veramente in vigore la riforma Bonafede della prescrizione in materia penale.
Quello che nessuno pensava possibile, sta invece per succedere, complice un governo che - pur di galleggiare - accetta tutti i diktat del proteiforme ma sempreverde partito delle manette (ve la ricordare La Rete di Orlando e Dalla Chiesa? E poi l'Italia dei Valori di Di Pietro? I 5 stelle sono gli eredi naturali di questi movimenti). Di un partito che, sia detto per incidens, nella sua diuturna lotta contro la verità e l'onestà intellettuale ha il coraggio di attaccare chi si oppone alla riforma definendolo un mariuolo che non vuol farsi processare, che si attacca a cavilli e eccezioni, come se le eccezioni processuali non fossero proprio la principale garanzia del diritto di difesa e trovino spesso spazio grazie alla sciatteria di chi dovrebbe amministrare con competenza e puntualità la giustizia.
In Grecia i Colonnelli, appena giunti al potere, eliminarono gli ordini degli avvocati.

Di cosa si tratta?

La L. n. 3 del 2019 ha modificato gli artt. 158, 159 e 160, c.p., peraltro già toccati dalla riforma Cirielli prima (correva l'anno 2005) e dalla riforma Orlando poi (L. n. 103 del 2017). Se l'impianto generale delle disposizioni è rimasto lo stesso, una novità rivoluzionaria riguarda il profilo (centrale) del decorso del termine di prescrizione del reato, oggetto di modifiche sia sul lato del dies a quo sia, soprattutto, su quello del dies ad quem.
Quanto alla determinazione del dies a quo, la novella reintroduce la disciplina - abrogata dalla Legge Cirielli - che fa decorrere la prescrizione del reato continuato dal momento in cui è cessata la continuazione, col bel risultato di rendere un istituto, che dovrebbe ispirarsi al principio del favor rei, uno strumento del giudice - per di più discrezionale - per allungare i termini prescrizionali.
Ma è in merito al dies ad quem che la riforma mostra il suo lato più repressivo: il termine è infatti anticipato (tra l'altro surrettiziamente, attraverso l'introduzione di una ipotesi di sospensione del corso dela prescrizione nell'art. 159, c.p., anziché mediante una modifica dell'art. 158, c.p.) dalla pronuncia della sentenza definitiva di condanna (dopo la quale, già adesso, la prescrizione non corre più) alla pronuncia della sentenza di primo grado.
In sostanza, siccome un processo su quattro in Appello si prescrive, Bonafede ha semplicemente pensato di eliminare la prescrizione dal secondo grado di giudizio. Con una riforma abborracciata, confusionaria, sbagliata e incostituzionale. In perfetto stile grillino.

Perché la disciplina è tecnicamente sbagliata?

In effetti, la nuova prescrizione - che entrerà in vigore senza alcuna norma transitoria, secondo un costume particolarmente apprezzato dagli operatori del diritto inaugurato su larga scala, guarda tu i caso, da Renzi con il Jobs Act e con l'anticipazione del Bail-in poi - non solo con ongi probabilità on funzionerà ma, se applicata, rischierà di creare enormi problemi di applicazione intertemporale.
In Italia la prescrizione è un istituto di diritto sostanziale e non processuale, pertanto la nuova disciplina - sfavorevole all'imputato - non sarà applicabile per i reati compiuti (non: per i processi iniziati) prima del 1° gennaio 2020, giusta l'ordinanza della Corte costituzionale n. 24 del 2017 (caso Taricco: vedi cosa ne abbiamo scritto qui); per quanto diremo in seguito, dunque, ci sono altissime probabilità che questo pastrocchio non entri mai effettivamente in vigore.
Ma se anche, tra tre o quattro anni, nessuno avesse ancora fatto giustizia di questo obbrobrio, si porrà immediatamente la questione della disciplina applicabile ai reati compiuti nel 2019: se infatti, da un lato, la riforma non era ancora in vigore nell'anno appena trascorso, purtuttavia era ben conoscibile dopo l'approvazione della L. n. 3 del 2019, sicché l'imputato non potrà invocare l’esigenza - costituzionalmente garantita - di vedersi assicurata la prevedibilità della legge penale più sfavorevole.
Mi avete seguito? No? Non vi preoccupate. Non mi ha seguito neppure il Guardasigilli.

Perché la disciplina è incostituzionale?

Ma la norma non solo è scritta con i piedi, o con altre parti del corpo comunque diverse sia dalle mani che dalla testa; è anche clamorosamente incostituzionale (nonostante i tentativi acribatici di difesa da parte di penalisti anche di chiara fama, come Gian Luigi Gatta).
Facilmente si può ricordare l'art. 111, c. 2, Cost., ai sensi del quale "la legge assicura la ragionevole durata" del processo, o l’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, secondo cui "ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale".
Ma non ci vuole troppo sforzo neanche perc vedere il contrasto col principio di presunzione di innocenza (la prescrizione si blocca dopo la pronuncia di primo grado anche in caso di assoluzione dell'imputato), col diritto di difesa (che verrrebbe vanificato in caso di processo tenuto artatamente in vita, senza addivenire ad alcuna conclusione) e alla finalità rieducativa della pena (che richiede logicamente un collegamento temporale fra reato e punizione).
Per dirla con l'avv. Valerio Donato, "punire dopo un lasso di tempo notevole, come vorrebbe l’abolizione della prescrizione, non solo non è utile ma è addirittura dannoso. Il colpevole infatti sarà una persona completamente diversa da quella che ha commesso l’illecito (vanificando quindi la funzione rieducativa della pena) e/o avrà potuto continuare a delinquere (vanificando quindi la funzione special preventiva della pena) e nelle persone offese il ricordo del torto subito sarà stato dimenticato (riaprendo quindi ferite ormai curate). Il reo inoltre avrà enormi difficoltà a difendersi avendo perso ogni possibilità di dimostrare la propria innocenza".
Tuttavia, la Corte Costituzionale e la Corte EDU ci hanno abituato alle più straordinarie trasformazioni a seconda della convenienza contingente di coloro da cui dovrebbero essere indipendenti; dunque magari riusciranno, con la stessa penna, a ritenere inumano il "fine pena mai" per i mafiosi accertati, ma assolutamente accettabile il "fine processo mai" per i comuni cittadini.
Anche in questo caso, dunque, come per tante altre controverse materie (l'obbligo vaccinale, le norme sul fine vita, ecc.), non dev'essere cercato un giudice a Berlino, ma un legislatore in Parlamento.
Le norme sbagliate non si impugnano, si aboliscono.

Perché la disciplina è politicamente aberrante?

In effetti, anche volendo astrarre dalla lacerazione che la nuova prescrizione porterebbe al sistema giuridico nel suo complesso, resta un'enorme questione politica che non può essere ignorata. Sono infatti almeno 25 anni che la lotta politica passa per la via giudiziaria: se mettiamo insieme l'obbligatorietà dell'azione penale (che, in un sistema con risorse fate e pubblici ministeri che non hanno doti soprannaturali, è sinonimo di arbitrarietà dell'azione penale: si veda qui a proposito della c.d. "Circolare Pignatone"), la sostanziale irresponsabilità dei singoli magistrati (che ai sensi dell'art. 101, c. 2, Cost., sono soggetti soltanto alla legge, la quale - come noto - spesso non ha molta voce in capitolo), il nodo gordiano che ancora avviluppa magistratura requirente e giudicante, derive ideologiche alla Patronaggio, si capisce che il pericolo derivante dalla riforma Bonafede non è solo per il singolo cittadino (che sarebbe già troppo), ma per la stessa democrazia.
Il tutto, poi, è reso ancora più drammatico dal fatto che, nell'immaginario collettivo, essere iscritti nel registro degli indagati o - peggio - ricevere un avviso di garanzia corrisponde a una sentenza definitiva di condanna. Con la consguenza che la cancellazione della prescrizione (soprattutto in caso di sentenza di condanna in primo grado) può aprire le porte a una specie di ergatsolo a piede libero in attesa dei successivi gradi di giudizio (che, eventualmente, potrebbero non esserci mai).
Un collega di chi scrive si trova, per esempio, a vivere la seguente edificante vicenda.
A seguito di alcuni fatti avvenuti nel 2007, con grande celerità, nel maggio 2012, ha saputo di una richiesta di rinvio a giudizio avanzata da un solerte PM senese. Siccome i fatti in questione erano ancora troppo freschi, il GIP ha pensato di far passare un altro po' di tempo: la decisione di andare a processo infatti è di aprile 2013. Inizia il dibattimento, anzi: tenta di iniziare. Tra gli imputati ci sono anche cittadini stranieri, per cui ci vogliono un paio d'anni a capire come fare in modo che le notifiche non siano radicalmente nulle (o sbagliate, o tardive, o chessò io). Prima udienza dibattimentale: 26 marzo 2015 (anzi: no; siccome è cambiato il presidente del collegio, a ottobre si ricomincia da capo). Il 26 settembre 2017, finalmente, dopo dieci anni, di cui cinque di processo, il PM chiede la condanna di sette indagati per il reato di “falso”. Nel frattempo, gli imputati sono stati sottoposti per anni alla gogna di media, blog e discorsi da bar.
Il 17 ottobre 2017 il collegio giudicate ha dichiarato l’assoluzione di tutti gli imputati con formula piena. In questi giorni, la Procura ha ricorso in Appello. Le imputazioni si prescriveranno, gli imputati usciranno da un incubo, i solerti magistrati senesi potranno dire di aver, quantomeno, pareggiato. I discorsi dei ben informati continueranno, imperterriti.

Perché anche la proposta del PD non risolve il problema.

Il piccolo fatto di cronaca sopra riportato aiuta a capire perché anche le recenti proposte di "mediazione" del PD non risolvano il problema. Tralasciando la proposta di questi giorni, per lo più dettata da disperazione, di sospendere la prescrizione "ma solo per un pochino", bisogna concentrarsi sull'altra - più concreta - secondo cui alla riforma Bonafede andrebbe accompagnata una più ampia riforma della giustizia che imponga tempi certi ai processi, una volta iniziati.
"Secondo i dati del Ministero della Giustizia, nel 2017 la durata media del processo penale è stata nel giudizio di appello pari a 901 giorni (due anni e mezzo!) mentre, nel giudizio di primo grado, ha oscillato tra i 707 giorni in caso di rito collegiale e i 534 giorni in caso di rito monocratico. Che il nostro sistema della giustizia penale debba fronteggiare un serio problema di lentezza del processo è confermato dall’ultimo report della Commissione Europea per l’Efficienza della Giustizia (CEPJ), costituita nell’ambito del Consiglio d’Europa. Il giudizio penale di primo grado dura in Italia più che in ogni altro paese (la media europea è di 138 giorni). Il giudizio penale d’appello solo a Malta dura di più, a fronte di una media europea di 143 giorni" (così Gatta, citato sopra).
Ora, come si è visto, la durata del processo è solo una parte del problema, essendo non meno grave la durata abnorme delle indagini preliminari (che possono arrivare a due anni dall'iscrizione nel registro degli indagati). Inoltre rendere più celere il processo a parità di pianta organica (visto che i vincoli dell'Unione Europea, madre di parto e di voler matrigna, non ci impongono di assumere altri giudici, né di costruire nuovi tribunali) potrebbe significare, alla fin fine, una riduzione dei concreti spazi di difesa, facendo rientrare dalla finestra ciò che si vorrebbe far uscire dalla porta.
E poi, far riformare la giustizia penale al PD è come chiedere a Mastro Titta una legge per l'abolizione della pena di morte.

giovedì 26 settembre 2019

La Costituzione verde (di rabbia)

Giuseppe Conte, oltre a tante altre cose, è stato anche socio di uno dei maggiori studi legali italiani e componente del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa; il diritto, dunque, lo conosce molto bene. Tuttavia, se a volte per convenienza politica si millanta di sapere ciò che si ignora, altre volte (fors'anche più frequenti?) per la medesima convenienza si finge di scordare ciò che si è appreso, facendosi trasportare sereni dalla corrente di pensiero unico del momento. Ecco allora che  l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, luogo fuori dal tempo e dallo spazio, oltre che dal principio di realtà, più della tana del Bianconiglio, ben si addice a tweet come questo.
Bene. Anzi, male. Perché il nostro Presidente del Consiglio, già avvocato dei propri clienti, quindi avvocato del popolo italiano, infine rappresentante dei burocrati di Bruxelles, finge di dimenticare da un lato l'art. 139, Cost., mercé il quale i principi fondamentali della Carta sono per lo più ritenuti intangibili, ma soprattutto, e dall'altro, soprattutto, l'art. 9, c. 2, dell'attuale Costituzione, ai sensi del quale "la Repubblica... tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione".
Norma breve, certo, come tutte le disposizioni programmatiche della Costituzione, ma pregnantissima, perché nel concetto di "paesaggio" - che incorpora quello di "ambiente" e della sua "biodiversità", come ben evidenzia G.M. Flick, e come si comprende dall'art. 117, cc. 1 e 2, Cost., che attribuiscono rispettivamente alla sola competenza statale ed a quella concorrente le materie della "tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei
beni culturali" e della "valorizzazione dei
beni culturali e ambientali" - c'è un quid pluris rappresentato dal fattore antropico. "Tutela del paesaggio" significa "tutela dell'ambiente" in quanto plasmato dalla natura e dall'uomo, meglio: in quanto prodotto del lavoro e della razionalità dell'uomo che protegge ed elabora il dato naturale rendendolo al contempo più coerente (più bello, vorremmo dire) e, in ultima analisi, più fruibile. Si capisce allora che, al di là della facile propaganda, non c'è - almeno in questo campo - nessun cambiamento culturale da realizzare.
Ancora: la Costituzione vive non solo delle singole disposizioni da cui è composta, ma anche dalle loro interrelazioni. Ecco allora come, nota Pizzorusso (*), la tutela dell'ambiente - sintomaticamente affidata (non senza più di un ripensamento e una contrarietà fra gli stessi Costituenti) alla "Repubblica", cioè "all'intera comunità nazionale e per essa a tutti gli organi dello Stato e degli altri enti pubblici", soprattutto locali - sia finalizzata "a creare una situazione ambientale che renda quanto più è possibile agevole l'esercizio delle libertà individuali". Che fra queste spicchino il diritto al lavoro (art. 4) e il diritto alla salute (art. 32), lo ha ben notato Flick nel testo sopra citato. Nasce così il "diritto pubblico dell'ambiente", che si risolve principalmente nell'attuazione di una razionale disciplina urbanistica e, appunto, nella difesa contro gli inquinamenti (Caravita (**)).
Ma, allora, cosa vuole Conte?



A sentire il suo discorso all'ONU, un pot-pourri in cui si passa dall'umanesimo democratico (?) al problema ambientale fino alla questione dei migranti, par di capire che il punto vero sia quello di trasformare una norma di principio, che lascia tuttavia la responsabilità politica delle sue concrete modalità di attuazione al normale gioco democratico, in una disposizione cogente e predeterminata negli esiti, volta all'introduzione di ulteriori vincoli all'azione di governo, sia di natura regolamentare, sia di natura fiscale, sulla scorta di quanto fatto da Mario Monti con l'art. 81, Cost. in materia di pareggio di bilancio.
Cavallo di Troia di questo utilizzo distorto delle pur giustissime istanze di tutela ambientale sono il concetto di "promozione delle condizioni per uno sviluppo sostenibile" delle istanze economiche e quello di "adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà nei confronti delle generazioni future". Dopo, varrà tutto: saranno incostituzionali il diesel, la Nutella, la plastica, non so forse anche l'orto del nonno. Sarà invece pienamente costituzionale qualsiasi tassa o balzello, purché "verde".
Non solo: questi concetti - nella loro pregnanza terminologica - collegano strettamente l'ordinameno italiano a Trattato e Convenzioni sovranazionali, aprendo l'ennesima breccia nel  nostro sistema dell fonti (che, ormai, è un colabrodo: si pensi alla "norma dei vinti", l'art. 10, Cost., o all'art. 11 intepretato in senso europeista, o ancora al "nuovo" art. 117, Cost.): vengono per esempio in mente la Dichiarazione di Rio de Janeiro del 1992), recepito dall'art. 1 del Trattato di Lisbona; o l’Agenda 2030 approvata dall'ONU nel 2015 (peraltro già recepita dall'art. 3, L. n. 221 del 2015, c.d. "collegato ambientale").
Dice: "sei sempre il solito malpensante!". Sarebbe vero, se non fosse che la proposta di legge di modifica costituzionale già esiste, firmata - tra gli altri - da quei mostri sacri del costituzionalismo italiano che sono Anna Ascani, Roberto Giachetti, Stefania Pezzopane, Debora Serracchiani. Tutto made in PD, ovviamente, tanto per ribadire a chi riferisce Conte.


(*) Pizzorusso, Sistema istituzionale del diritto pubblico italiano, II ed., Napoli, 1992.
(**) Caravita, Diritto pubblico dell'ambiente, Bologna, 1990.

lunedì 6 febbraio 2017

Anche la Corte Costituzionale si avvede che i Trattati contraddicono la Costituzione

Premessa

Questo post vuole evidenziare l'aggressività dell'ordinamento giuridico europeo rispetto a quello italiano e la mancanza di qualsiasi strategia di difesa da parte degli organi che, teoricamente, dovrebbero garantire la nostra sovranità (che - fin tanto che resta in vigore l'art. 1 della Costituzione - appartiene al popolo).
Per spiegare la questione, tuttavia, è necessario un ragionamento un po' più articolato, che comporta: (i) una breve disamina del "diritto penale europeo" (introduzione); (ii) la ricostruzione della vicenda giudiziaria in commenti (i fatti e gli antefatti); (iii) alcune considerazioni conclusive (di buon senso).
Chi ha già dimestichezza con la materia può senz'altro passare direttamente al punto (iii).

(I) INTRODUZIONE

(I.a) Cosa è il diritto penale europeo

Esiste una branca del diritto europeo assai complicata e spesso negletta. Come al solito, è complicata e negletta perché particolarmente importante (cioè prospetticamente capace di incidere in modo significativo sulla vita di ciascuno).
Si tratta del diritto penale europeo.
Gli artt. 82 e ss. del TFUE prevedono infatti sia il "principio di riconoscimento reciproco delle sentenze e delle decisioni giudiziarie", sia il "ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri", sia la "cooperazione tra le autorità giudiziarie degli Stati... in relazione all'azione penale e all'esecuzione delle decisioni".
Propedeutiche al riconoscimento reciproco delle sentenze sono disposizioni assai rilevanti, poiché attengono all'ammissibilità reciproca delle prove, ai diritti della persona nella procedura penale, ai diritti delle vittime della criminalità, oltre che ad altri non meglio precisati "elementi specifici della procedura penale, individuati dal Consiglio in via preliminare mediante una decisione" unanime.
Il riavvicinamento delle disposizioni legislative si attua mediante l'emanazione di "norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in sfere di criminalità particolarmente grave" -terrorismo, tratta e sfruttamento sessuale degli esseri umani, traffico di stupefacenti e di armi, riciclaggio, corruzione, contraffazione di mezzi di pagamento, criminalità informatica e criminalità organizzata - "che presentano una dimensione transnazionale derivante dal carattere o dalle implicazioni di tali reati o da una particolare necessità di combatterli su basi comuni".
Non solo: "allorché il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri in materia penale si rivela indispensabile per garantire l'attuazione efficace di una politica dell'Unione in un settore che è stato oggetto di misure di armonizzazione, norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni nel settore in questione possono essere stabilite [non tramite regolamento, ma comunque] tramite direttive".
(Prima osservazione. L'Unione Europea si arroga il diritto di comminare sanzioni afflittive in relazione a fattispecie che possano astrattamente pregiudicare qualsivoglia norma emanata dalla stessa Unione in settori oggetti di armonizzazione. ...).
Tra i reati previsti dall'art. 83, c. 1, TFUE (Trattato di Lisbona) non figura più, come accadeva nel precedente TUE (Trattato di Maastricht), quello di "frode", che rimane invece "confinato" all'art. 325 del TFUE. Il c. 4, ad esempio, dispone: "il Parlamento europeo e il Consiglio... adottano le misure necessarie nei settori della prevenzione e lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell'Unione, al fine di pervenire a una protezione efficace ed equivalente in tutti gli Stati membri e nelle istituzioni, organi e organismi dell'Unione".
I dubbi della dottrina sull'effettiva portata della disposizione, peraltro, hanno nel caso di specie un rilievo tutto particolare, come vedremo in seguito.

(I.b) Le garanzie dell'imputato nel sistema europeo

Risulta evidente che, a livello di Unione Europea, alla competenza penale si debbano accompagnare anche garanzie di tutela degli imputati. Ad esempio, nella nostra Costituzione tali tutele si riscontrano - largo circa - agli artt. 13, da 24 a 27, e 111 (giudice naturale precostituito per legge, principio di legalità [nessuno può essere giudicato se non in base a una legge, né a una pena che non sia prevista dalla legge, posto che la legge sia precisa e stringente: v. sotto], habeas corpus e diritto di difesa, limitazioni all'estradizione, personalità della responsabilità penale, presunzione di innocenza, funzione rieducativa della pena, giusto processo).
Gli estensori dei Trattati hanno creduto di poter risolvere la questione attraverso l'art. 6 del TUE, che istituisce un raccordo tra le garanzie contenute nel diritto dell’Unione e quelle già previste sia dalla Carta Europea dei Diritto dell'Uomo (o CEDU) sia dagli Stati membri: un caso noto è il riconoscimento del rango di "principio generale di diritto europeo" in relazione alla retroattività delle norme penali più favorevoli, rinvenibile nelle tradizioni costituzionali comuni (cfr. CGCE, 3 maggio 2005, causa C-387/02 relativa alle vicende giudiziarie del Silvione nazionale).
A tale strada se ne è aggiunta un'altra, a partire dalla dichiarazione di Nizza del 2000, che ha portato alla elaborazione di una "Carta dei diritti" dotata del medesimo rango dei Trattati ai sensi dell'art. 6, c. 1, del TUE. La Carta, che riconosce un catalogo minimo di garanzie penali e processuali, opera - per effetto dell’art. 51, c. 1 - "esclusivamente in attuazione del diritto dell’Unione".
Che significa? Una cosa fondamentale, secondo la Corte di Giustizia, e ciò che la Carta ha la prevalenza rispetto alle Costituzioni nazionali (cfr. CGCE, sentenza 26 febbraio 2013, C-199/11, Melloni, § 59, secondo cui il primato delle norme europee non incontra limiti, neanche nelle norme costituzionali degli Stati membri: "il fatto che uno Stato membro invochi disposizioni di diritto nazionale, quand'anche di rango costituzionale, non può sminuire l’efficacia del diritto dell’Unione nel territorio di tale Stato"). 
(Seconda osservazione. Logico corollario di quanto sopra è la possibilità di rinvio pregiudiziale alla CGCE anche da parte della stessa Corte Costituzionale, nonché il diritto della Corte di Giustizia di rimettere in discussione addirittura un giudicato di un Paese membro (CGCE, sentenza 18 luglio 2007, C-119/05, Ministro Industria c. Lucchini: per una lettura meno dirompente della sentenza, cfr. Lembo, in Dir. e Prat. Trib., 2015, 6, 10936). Questa impostazione, tuttavia, confligge con la pregressa giurisprudenza della Corte Costituzionale, che ha sempre ritenuto di mantenere comunque il diritto a verificare l’eventuale conflitto della norma comunitaria in ipotesi applicabile con i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e con i diritti inalienabili della persona umana. Si tratta dei c.d. “controlimiti” i quali, tuttavia, secondo una certa corrente dottrinale sarebbero stati anch'essi "europeizzati" (oltre che dall'art. 6, anche) dall'art. 4, c. 2, del TUE, secondo cui "l'Unione rispetta l'uguaglianza degli Stati membri davanti ai trattati e la loro identità nazionale insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali e regionali" (v. Ruggeri, Trattato costituzionale, europeizzazione dei “controlimiti”, e tecniche di risoluzione delle antinomie tra diritto comunitario e diritto interno..., in Staiano, Giurisprudenza costituzionale e principi fondamentali, Torino, 2006, 827).
Scrivevo in un precedente post: "se così fosse, anche su questi [controlimiti] (e sul loro effettivo contenuto) sarebbe chiamati a pronunciarsi, in ultima istanza, la Corte di Giustizia, nonostante un orientamento (al momento) nettamente contrario da parte della Corte Costituzionale (Corte Cost., 22 ottobre 2014, n. 238). Potrebbe però essere possibile [in futuro]... anche un rinvio alla stessa Corte di Giustizia proprio in virtù della sopra ricordata «europeizzazione» dei «controlimiti». Almeno, si darebbe una volta per tutte alla volpe il diritto di giudicare sulle galline").

(II) I FATTI E GLI ANTEFATTI

(II.a) Dalla sentenza Taricco all'ordinanza n. 24 del 2017

La Corte di Giustizia, con sentenza dell'8 settembre 2015 relativa alla causa C-105/14 (c.d. sentenza Taricco), condanna l'Italia per la vigente (all'epoca dei fatti) disciplina della prescrizione dei reati tributari. Secondo i giudici, la previsione di un termine massimo per il raggiungimento di una condanna definitiva pur in presenza di atti interruttivi determinava, in pratica, la sistematica impunità delle frodi carosello in materia di IVA (tributo, come noto, europeo).
Secondo la Corte, dunque, il giudice penale deve disapplicare il combinato disposto dell'art. 160, u.c., e dell'art. 161, c.p. (peraltro modificati dal Berlusca quasi alla fine del suo ultimo governo), in quanto idoneo a pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dall'art. 325, cc. 1 e 2, TFUE, nell'ipotesi in cui detta normativa nazionale impedisca di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione Europea, o in cui preveda, per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, termini di prescrizione più lunghi di quelli previsti per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dell’Unione Europea.
Questo significa, in soldoni, che secondo la Corte di Lussemburgo il giudice italiano deve - a certe condizioni (tra l'altro di difficilissima previsione: si pensi al concetto di "violazione grave", o a quello di "impossibilità di infliggere sanzioni effettive e dissuasive contro le frodi gravi in un numero considerevole di casi”), in specifiche circostanze - pronunciare sentenza di condanna anche in relazione a un reato che la normativa penale vigente, di fonte legislativa italiana, considera ormai prescritto: il primato del diritto UE sul diritto degli Stati membri può dunque comportare anche effetti in malam partem rispetto alla posizione soggettiva del singolo cittadino. Quello che era stato negato con la c.d. "sentenza Berlusconi" (poiché, secondo la CGCE, "una direttiva non può avere l’effetto, di per sé ed indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o di aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni”) è invece qui solennemente affermato, essendo la norma asseritamente violata una norma di rango primario, contenuta nel Trattato di Lisbona, sia pure specificata dalla c.d. "Convenzione PIF" (sarebbe interessante parlare della proposta direttiva che dovrebbe sostituire la Convenzione, e della relativa Risoluzione del Parlamento Europeo... vabbè passiamo oltre).
Ma significa anche, per dirla in modo semplice, neppure contemplare l'ipotesi che il giudice italiano (essenzialmente il giudice costituzionale) si rifiuti di adempiere a tale obbligo, individuando nel principio di legalità in materia penale uno specifico, invalicabile “controlimite”.
Cosa dice, in proposito, la sentenza Taricco? Una cosa semplice, ma inappropriata. Nega cioè in radice che vi sia in questo caso alcuna violazione del principio di legalità. Infatti, ai sensi del combinato disposto degli artt. 49 e 52 della "Carta dei diritti", la disciplina della prescrizione atterrebbe alle condizioni di procedibilità del reato, rispetto alle quali detto principio (ridotto a nullum crimen sine lege e a nulla poena sine lege) non viene in rilievo. Peccato che la nostra Corte Costituzionale - a torto o a ragione, qui non rileva - abbia più volte chiaramente statuito esattamente l'opposto (v. p.e. C. Cost., sentenza n. 324/2008).
Il contrasto è palese ed è stato subito avvertito sia dalla Cassazione (che parla di "aggravamento del regime della punibilità di natura retroattiva"), sia dal Tribunale di Milano, che hanno investito la Corte Costituzionale del giudizio in ordine alla compatibilità con la nostra Carta "dell’art. 2 della legge 2 agosto 2008, n. 130 (Ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull'Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea e alcuni atti connessi, con atto finale, protocolli e dichiarazioni, fatto a Lisbona il 13 dicembre 2007)".
(La sventurata rispose).

(II.b) Il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia

Per giurisprudenza costante, la Corte Costituzionale "può verificare, attraverso il sindacato di costituzionalità della legge di esecuzione, se le norme del Trattato..., come sono interpretate ed applicate dalle istituzioni e dagli organi comunitari, siano in contrasto con i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale o attentino ai diritti inalienabili della persona umana" (C. Cost., 21 aprile 1989, n. 232; C. Cost.,, 8 giugno 1984, n. 170).
Ora, come la CGCE interpreti l'art. 325, TFUE mi sembra abbastanza chiaro. I Supremi Giudici, invece, hanno ritenuto di no (essenzialmente appellandosi ai §§ 53 e 55, che fanno appunto riferimento alla valutazione del giudice in ordine al "rispetto dei diritti degli imputati") e dunque si sono rivolti alla Corte di Giustizia in via pregiudiziale (ordinanza n. 24 del 26 gennaio 2017).
Il punto di partenza è quello sopra ricordato: nell'ordinamento costituzionale italiano il regime della prescrizione, in quanto facente parte del diritto sostanziale (e non di quello processuale, come accade in altri Paesi e come si desume dalla Carta di Nizza), è soggetto ai principi fondamentali di "legalità" (per cui la norma penale deve essere certa, precisa e stringente, come detto sopra) e di "irretroattività" (per cui la norma penale deve essere conoscibile prima del fatto).
Muovendo da tale assunto, la Corte Costituzionale ritiene: (a) che l'imputato non potesse ragionevolmente prevedere, in base al quadro normativo vigente al tempo del fatto, che il diritto dell'Unione avrebbe imposto al giudice italiano di disapplicare gli artt. 160, u.c., e 161, c. 2, c.p., in presenza delle specifiche condizioni indicate dalla CGCE; (b) che le regole di diritto enunciante nella sentenza non sono idonee a delimitare la discrezionalità giudiziaria, poiché non vi è modo di definire in via interpretativa con la necessaria determinatezza il requisito del "numero considerevole di casi", cui fa riferimento la sentenza Taricco.
La Corte, date queste premesse, avrebbe potuto semplicemente dichiarare l'illegittimità costituzionale della legge di ratifica dei Trattati, per la sola parte in cui essa consente che quell'ipotesi normativa si realizzi (così come d'altronde ammesso dagli stessi Supremi Giudici). Invece, propone tre quesiti, volti ad acclarare se la norma nazionale contrastante con il diritto dell'Unione Europea debba essere disapplicata dal giudice nazionale: (i) anche nel caso in cui a fondamento di questo obbligo di disapplicazione non vi sia una base legale sufficientemente determinata; (ii) anche quando nell'ordinamento dello Stato membro la prescrizione sia parte del diritto penale sostanziale e soggetta al principio di legalità; (iii) anche quando la mancata applicazione della norma nazionale sia in contrasto con i principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato membro o con i diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla Costituzione dello Stato membro.
Nel mezzo... alcune asserzioni piuttosto inquietanti.

(III) LE CONSIDERAZIONI DELLA CORTE E QUELLE DEL BUON SENSO

(III.a) L'ordinanza della Corte

Nella propria ordinanza, la Corte sottolinea ripetutamente che "il riconoscimento del primato del diritto dell'Unione è un dato acquisito nella giurisprudenza  di questa Corte, ai sensi dell'art. 11, Cost.", pur dovendo ammettere che "questa stessa giurisprudenza ha altresì costantemente affermato che l'osservanza dei principi supremi dell'ordine costituzionale italiano e dei diritti inalienabili della persona è condizione perché il diritto dell'Unione possa essere applicato in Italia".
La motivazione addotta per fondare tale presa di posizione è però quantomeno bizzarra.
Così scrive la Corte: "il primato del diritto dell'Unione non esprime una mera articolazione tecnica del sistema delle fonti nazionali e sovranazionali. Esso riflette piuttosto il convincimento che l'obiettivo della unità, nell'ambito di un ordinamento che assicura la pace e la giustizia tra le Nazioni, giustifica una rinuncia a spazi di sovranità, persino se definiti da norme costituzionali. Al contempo la legittimazione (art. 11 della Costituzione italiana) e la forza stessa dell'unità in seno ad un ordinamento caratterizzato dal pluralismo (art. 2 del TUE) nascono dalla sua capacità di includere il tasso di diversità minimo, ma necessario per preservare la identità nazionale insita nella struttura fondamentale dello Stato membro (art. 4, paragrafo 2, del TUE). In caso contrario i Trattati europei mirerebbero contraddittoriamente a dissolvere il fondamento costituzionale stesso dal quale hanno tratto origine per volontà degli Stati membri".
(In realtà, l'art. 11, Cost., parla di "limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni", e "in condizioni di parità con gli altri Stati". Tralascio qui ogni considerazione sulla questione della "parità": quello che hanno scritto Alberto Bagnai e Luciano Barra Caracciolo su questo punto è più che sufficiente. Tralascio anche il ridicolo riferimento alla "pace" e alla "giustizia", in relazione a un ordinamento che ha prodotto la più immane tragedia sociale, anzi umanitaria, dell'Europa moderna. Vorrei far notare però una certa differenza terminologica fra la Costituzione - "limitazioni di sovranità" - e la Corte Costituzionale - "rinuncia a spazi di sovranità" -, differenza che a mio avviso non è né casuale né priva di significati profondi. Quello che segue lo dimostra ampiamente, a mio avviso).
La primazia del diritto europeo. Cosa significa in pratica? Secondo la Corte Costituzionale significa, in buona sostanza, che prima dei Trattati vengono i "principi costituzionali", ma prima dei "principi costituzionali" viene l'obiettivo di unificazione delle legislazioni. Scrivono i giudici: "il caso qui esaminato si distingue nettamente da quello... [relativo alla] causa C-399/11, Melloni, con la quale si è escluso che, in forza delle previsioni della Costituzione di uno Stato membro, potessero aggiungersi ulteriori condizioni all'esecuzione di un mandato di arresto europeo, rispetto a quelle pattuite con il «consenso raggiunto dagli Stati membri nel loro insieme a proposito della portata da attribuire, secondo il diritto dell’Unione, ai diritti processuali di cui godono le persone condannate in absentia». In quel caso una soluzione opposta avrebbe inciso direttamente sulla portata della Decisione quadro 26 febbraio 2009, n. 2009/299/GAI... e avrebbe perciò comportato la rottura dell’unità del diritto dell’Unione in una materia basata sulla reciproca fiducia in un assetto normativo uniforme. Viceversa, il primato del diritto dell’Unione non è posto in discussione nel caso oggi a giudizio, perché, come si è già osservato, non è in questione la regola enunciata dalla sentenza in causa Taricco, e desunta dall'art. 325 del TFUE, ma solo l’esistenza di un impedimento di ordine costituzionale alla sua applicazione diretta da parte del giudice".
(Probabilmente non interpreto bene. D'altronde, se sbaglio mi corriggerete. Mi sembra però di capire che, ove vi fosse un qualche atto normativo direttamente applicabile emanato dai competenti organi dell'UE, volto al riavvicinamento delle legislazioni dei Paesi membri, ma incidente su un "principio costituzionale" italiano, il "principio costituzionale" potrebbe essere tranquillamente messo da parte a favore della superiore istanza dell'omogeneizzazione delle legislazioni in una serie di ambiti su cui l'Italia avrebbe ceduto la propria sovranità. L'art. 11, Cost., finirebbe dunque per essere norma sovraordinata a qualsiasi altra di rango costituzionale, sia pure limitatamente alle materia in cui vi sia consenso per un assetto normativo uniforme, diciamo largo circa all'acquis comunitario. Melloni è come Falqui. Basta la parola).
Ma l'idea della "primazia del diritto europeo" si riscontra anche in un altro passaggio della Corte: "anche se si dovesse ritenere che la prescrizione ha natura processuale, o che comunque può essere regolata anche da una normativa posteriore alla commissione del reato, ugualmente resterebbe il principio che l’attività del giudice chiamato ad applicarla deve dipendere da disposizioni legali sufficientemente determinate. In questo principio si coglie un tratto costitutivo degli ordinamenti costituzionali degli Stati membri di civil law. Essi non affidano al giudice il potere di creare un regime legale penale, in luogo di quello realizzato dalla legge approvata dal Parlamento, e in ogni caso ripudiano l’idea che i tribunali penali siano incaricati di raggiungere uno scopo, pur legalmente predefinito, senza che la legge specifichi con quali mezzi e in quali limiti ciò possa avvenire. Il largo consenso diffuso tra gli Stati membri su tale principio cardine della divisione dei poteri induce a ritenere che l’art. 49 della Carta di Nizza abbia identica portata, ai sensi dell’art. 52, paragrafo 4, della medesima Carta".
(In altri termini. E sempre col beneficio dell'inventario: mi sembrano enormità costituzionali così impensabili che - mentre scrivo - mantengo comunque una certa riserva mentale. Spero, cioè, di sbagliarmi di grosso. Dicevo: in altri termini, la Corte Costituzionale sembra consentire con quella parte della dottrina che ritiene gli stessi "controlimiti" come sussunti all'interno dei Trattati e degli altri atti di analogo rango dell'Unione. La decisione Taricco andrebbe disapplicata in Italia non tanto perché incompatibile con l'art. 25, Cost., quanto piuttosto perché tale articolo sarebbe la declinazione italiana di un più ampio principio, diffuso nelle Costituzioni dei vari Stati membri, come tale incorporato dalla Carta di Nizza. Il che, a contrario, significa che un "principio costituzionale" proprio del nostro Paese e non di altri potrebbe non essere riconosciuto come tale dalla stessa Corte Costituzionale ove confliggente con singole disposizioni dei Trattati e dunque, da ultimi, con l'art. 11, Cost. Ogni riferimento alla Costituzione economica della Repubblica e alla tutela dei risparmiatori è, ovviamente, assolutamente voluto. Mi sarebbe piaciuto, da questo punto di vista, una pronuncia della Corte Costituzionale in ordine alle regole sul bail-in).

(III.b) Concludendo

La posizione della Corte solleva, secondo me, più di una preoccupazione. In particolare, quella relativa alla possibile lettura dell'ordinanza come una nascosta e paludata ammissione di subordinazione delle specificità costituzionali italiane al diritto comune dell'UE nei molteplici settori di cui al Trattato di Lisbona. Subordinazione che, pertanto, invaderebbe gran parte della Costituzione economica e, per quella via, finirebbe per incidere da un lato sui diritti fondamentali del cittadini (perché se non c'è lavoro non c'è neppure dignità), dall'altro sulla stessa effettività dei diritti politici (non a caso la sovranità appartiene al popolo anche perché la Repubblica è fondata sul lavoro).
All'indomani della sentenza Taricco (che - se si è capito - è una specie di tsunami devastante rispetto al sistema istituzionale degli settant'anni nel nostro Paese) la dottrina ha evidenziato - ben prima dell'ordinanza in commento - l'inanità di un rinvio pregiudiziale alla CGCE: "dal punto di vista dell'ordinamento UE, vale la pena di sottolineare subito, l'opposizione di un... 'controlimite'... sarebbe senz'altro giudicata illegittima. La situazione è qui strutturalmente identica a quella già affrontata dalla Corte nel caso Melloni [ops: N.d.R.], in cui parimenti si discuteva della possibilità per uno Stato membro (in quel caso, la Spagna) di rifiutarsi di adempiere ad un obbligo di fonte UE... in ragione dell’asserita necessità di non violare il principio del giusto processo, nell'estensione riconosciuta a quel principio dal diritto costituzionale nazionale. In quell'occasione la... Corte, rilevata la compatibilità dell’obbligo di consegna del condannato con il diritto al giusto processo nell'estensione riconosciuta a tale diritto dal diritto europeo, sulla base dell’art. 47 CDFUE e della corrispondente garanzia di cui all'art. 6 CEDU [e questo spiega l'arrabattarsi della nostra Corte a rimettere in gioco questa Convenzione: N.d.R.], negò fermamente che la Spagna potesse opporre la necessità di rispettare le garanzie supplementari riconosciute dalla propria Costituzione per sottrarsi all'adempimento dell’obbligo europeo. La Corte si confrontò, in proposito, con la disposizione di cui all'art. 53 CDFUE – a tenore della quale 'nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti, nel rispettivo ambito di applicazione, dal diritto dell’Unione, dal diritto internazionale, dalle convenzioni internazionali delle quali l'Unione o tutti gli Stati membri sono parti, in particolare... dalle costituzioni degli Stati membri' –, negando che tale disposizione 'autorizzi in maniera generale uno Stato membro ad applicare lo standard di protezione dei diritti fondamentali garantito dalla sua Costituzione quando questo è più elevato di quello derivante dalla Carta e ad opporlo, se del caso, all'applicazione di disposizioni di diritto dell’Unione'. Insomma: secondo Melloni, è la Corte che stabilisce se un obbligo eurounitario sia o meno compatibile con i diritti fondamentali, così come riconosciuti a livello europeo; una volta riconosciuta tale compatibilità, lo Stato membro è tenuto a dare esecuzione all'obbligo, anche se per ipotesi esso contrasti con il proprio diritto costituzionale". Amen.
Lo stesso Autore, inoltre, sia pure nel quadro di un'apologetica del vincolo esterno anche in materia penale che, francamente non condivido affatto ("i... giudici... rilevano oggi l’assurdità di questa situazione [della prescrizione], che toglie ogni credibilità alla giustizia penale italiana a fronte di fenomeni criminali tutt'altro che bagatellari; e richiamano i loro colleghi italiani, a fronte dell’assordante silenzio del loro legislatore, a porvi direttamente rimedio, quanto meno con riferimento alla materia dei reati che offendono gli interessi finanziari dell’Unione: un legislatore appena razionale a questo punto non dovrebbe però tardare a intervenire, attraverso un'organica disciplina della prescrizione, non foss'altro che in omaggio a un'elementare esigenza di certezza del diritto: valore che potrebbe essere non poco scosso dalle ripercussioni di questa sentenza, il cui contenuto precettivo per il giudice penale italiano non è proprio chiarissimo..."), evidenzia come la disapplicazione pura e semplice della sentenza Taricco rappresenterebbe un modo per "sfidare apertamente il principio del primato del diritto eurounitario, su cui si base l’intera costruzione
giuridica dell’Unione europea".
È questa - non della sfida, ma della chiarezza - la strada intrapresa dalla Corte Costituzionale tedesca nella celeberrima sentenza del 30 giugno 2009 (qui: ovviamente in questa sede sfioriamo soltanto le considerazioni riportate nella decisione, per non disperdere il discorso). La Corte ha bensì ritenuto conforme alla Costituzione l’adesione al Trattato di Lisbona, ma ha posto requisiti molto stringenti al processo di integrazione (soprattutto in materia penale, per rimanere in tema); e ciò - pur in mancanza di una disposizione chiara ed equilibrata come il nostro art. 11, Cost. - proprio per garantire il rispetto della sovranità del popolo tedesco, che rischierebbe altrimenti di essere svuotata. "Perno della sentenza è il diritto di voto del cittadino tedesco..., che la Corte adopera come leva processuale-costituzionale per poter effettuare nell'ambito di un ricorso individuale... una completa disamina del Trattato di riforma. Il pericolo di una violazione del diritto di voto sussiste, ad avviso della Corte, sotto un triplice profilo: il diritto all'elezione dei deputati al Bundestag tedesco potrebbe essere 'svuotato' in seguito ad un ampio trasferimento di competenze all'Unione. La Corte intende, inoltre, il diritto di voto come un (ampio) diritto pubblico soggettivo, con il quale viene reso censurabile il principio democratico: da un lato, l’art. 38, Abs. 1, primo periodo, GG, fonderebbe attraverso il vincolo dell’Unione europea ai principi democratici, presupposto nell'art. 23, Abs. 1, primo periodo, GG, l’esigenza di una sufficiente legittimazione democratica del potere sovrano europeo; dall'altro, la Corte desume dall'art. 146 GG, secondo cui la Legge fondamentale cessa di avere vigore con una Costituzione votata dal popolo tedesco in libera autodeterminazione, una difesa contro una ulteriore adesione ad uno Stato federale europeo e la conseguente perdita della statualità della Repubblica federale tedesca..." (articolo completo qui). Scrive ancora l'Autore: "merita particolare attenzione la questione, se la competenza indiretta disciplinata nell'art. 83, c. 2, TFUE sia tassativa o se un atto corrispondente possa basarsi anche sulla delega decisiva per la relativa materia. Così, l’opinione dominante parte dal presupposto che sull'art. 325, c. 4, TFUE possano fondarsi anche misure penali per la lotta alla frode... Ciò contrasterebbe tuttavia non soltanto con la interpretazione restrittiva richiesta dalla Corte costituzionale, ma anche con la sistematica delle competenze pattizie dell’Unione, posto che l’assunzione della competenza indiretta penale indipendentemente dalla relativa competenza".
La materia del contendere è chiara. La sfida può essere lanciata. Ma forse la nostra Corte Costituzionale non se la sente. E per il momento fa ammuina.

venerdì 25 novembre 2016

Il CNEL e l'imbarbarimento del messaggio politico

Quando studiavo, non c'era Organo costituzionale che mi stesse più sulle palle del CNEL.
Non capivo proprio cosa fosse: "è composto... di esperti e di rappresentanti delle categorie produttive, in misura che tenga conto della loro importanza numerica e qualitativa", "è organo di consulenza delle Camere e del Governo", "può contribuire alla elaborazione della legislazione economica e sociale secondo i principi ed entro i limiti stabiliti dalla legge". Ad uno studente di giurisprudenza del primo anno (per di più digiuno di nozioni macroeconomiche, oltre che di vita reale) sembra di leggere un testo di Averroè (ovviamente in lingua originale).
Nel corso degli anni, il mio giudizio non è cambiato. Per dire: De Rita, Larizza, Marzano sono tutti personaggi che non mi hanno mai ispirato particolare simpatia.
Però, come sempre mi accade, quando vedo sparare impenitentemente su un cadavere, mi si risveglia dentro il Francesco Ferrucci e sento la necessità di dissociarmi. Subito e nettamente.



Ma il rispetto dov'è finito? La correttezza istituzionale dove si è nascosta? La vergogna! Sei un politico di professione che non ha mai lavorato un giorno fuori dalle istituzioni - cosa peraltro commendevole, ci mancherebbe altro - e ti permetti di additare altri al pubblico ludibrio, di parlare di "casta", di "tagli di poltrone", di "enti inutili", di "politici"?
Concepisci una riforma della Costituzione inqualificabile, tutta volta a ridurre gli spazi democratici a favore delle istanze lobbistiche della grande finanza e dei tecnocrati dell'Unione Europea (che poi sono la stessa cosa), per raccattare una maggioranza parlamentare che te la voti ti inventi un diritto di veto perenne a favore delle Regioni a statuto speciale, disegni un sistema di elezione del nuovo Senato che non funzionerebbe neanche in un condominio, e te la prendi col CNEL?
Viene quasi da pensare che ci sia qualcosa di più. Che Matteo nostro, uno che notoriamente non porta rancore, non abbia apprezzato certe analisi.

E comunque è troppo facile parlare solo per slogan. Per macchiette. Troppo facile offendere, insinuare, polemizzare, fingere, spararla più grossa possibile. L'unica risposta possibile a questo comportamento anti-istituzionale è allora quello di Giorgia Meloni, l'altra sera, da Vespa, che dopo essere stata annoverata fra gli eletti di Forza Italia (e non nelle liste di Alleanza Nazionale, Partito delle Libertà e Fratelli d'Italia) si inalbera leggermente, e spiattella nel muso al nostro amato Presidente un bel "bugiardo".


Ma alla sullodata puntata di Porta a Porta è successo anche di peggio. Il Ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, quella che ha elaborato i nuovi Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) scordandosi però la relativa copertura, e che pertanto - così, per sicurezza - ha partorito in clinica privata, si è lanciata in un triplo salto carpiato con avvitamento verbale, collegando direttamente il sì alla riforma costituzionale e migliori cure ai malati di diabete.
E non era la prima volta.



Il Ministro fa intendere che le cure si livelleranno verso l'alto, ma non spiega dove le Regioni, che hanno come obiettivo il pareggio di bilancio (art. 97 attuale) e che devono essere, nella loro gestione, "virtuose" (artt. 119 nuovo), prenderanno le necessarie risorse. Metteranno ticket, chi può pagherà (o si farà l'assicurazioncina alla Unipol, ché non si sa mai), chi non può si curerà meno, mentre lei all'Ospedale S. Pietro una cameretta la troverà sempre.
Soldi dallo Stato, neanche a parlarne...


Campagna elettorale sulla pelle dei malati. Il peggio del peggio, incommentabile. Per questo mi affido ad alcune riflessioni scritte da chi ha idee completamente diverse dalle mie (per esempio in materia di aborto), ma mette bene in evidenza la bassezza di chi crea false speranze in soggetti per definizione deboli, esponendoli alla disillusione o - peggio - alla disperazione.

Allora, in fine dei conti, quello che resterà per sempre imputato a Renzi non sarà tanto il Jobs Act, o la Buona Scuola, o tutte le altre disposizioni che hanno distrutto il sistema giuridico e sociale di questo Paese, quanto piuttosto di aver distrutto - in una Nazione storicamente divisa, a partire dalle date fondative della Repubblica - l'unico punto di sintesi condiviso, cioè la Costituzione. Che passi il sì o che passi il no, dal 5 dicembre sarà la Costituzione di alcuni, non più di tutti.

lunedì 3 ottobre 2016

A cosa serve il nuovo senato renziano (the new Seiano)

Con la riforma costituzionale risparmieremo un sacco di soldi, perché ha abolito il CNEL, ha abolito le province, ha abolito il Senato!
Questa sarà la frase che, come un mantra, i testimoni di geova renziani ripeteranno ossessivamente per due mesi, porta a porta.
Non sarà tutto tempo perso. Intanto, molti scopriranno l'esistenza del CNEL, il che fa sempre bagaglio culturale. Qualcuno, facendo una breve ricerca su internet, si accorgerà pure che la sua abolizione è sostanzialmente inutile, sia per il miserrimo risparmio, sia perché tanto un ufficetto studi le Regioni se lo sono già create tutte. Ma tant'è.
Quelli più avvertiti faranno presente alle nuove serve di Maria (Elena) che l'abolizione delle Province o del CNEL si poteva tranquillamente fare con un paio di leggine costituzionali votate all'unanimità (come ben sottolineato dal prof. Onida qui)...


...e che, in realtà, il Senato non è affatto abolito, ma semplicemente reso non elettivo e composto da un terzo degli attuali membri. Con un risparmio in termini di risorse, tra l'altro, miserrimo (oltre che, alla fin fine, dannoso).
Anzi.
Il PD, all'idea di abolire puramente e semplicemente la seconda camera, ha risposto picche.
Però, ha pensato bene di inventare un sistema di elezione folle.
Il nuovo Senato ha 100 membri, 5 nominati per un settennato dal Presidente della Repubblica, gli altri eletti - ai sensi dell'art. 57 - dai consiglieri regionali (invece che a suffragio universale). Di questi 95, 21 sono scelti fra i sindaci (uno per ciascuna regione), gli altri 74 tra i consiglieri regionali medesimi (che, dunque, si votano da soli).
Non bastando tutto questo bailamme, Sindaci e Consiglieri restano in Senato finché non scade il relativo mandato "nelle istituzioni territoriali cui appartengono", così che è ben probabile che a Palazzo Madama debbano mettere le porte scorrevoli.

Ma allora, a cosa serve questo Senato renziano? A molte cose.

A livello di epifenomeno, serve in primo luogo a fare un favore alla disastrata classe dirigente regionale, che potrà profittare, per una certa parte dei suoi membri, della (blanda) immunità dell'art. 68 della Costituzione, non a caso non modificato ("senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se sia colto nell'atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza. Analoga autorizzazione è richiesta per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza").

Su un piano più profondo, a due obiettivi, assai più inquietanti.
Come si sa, le Camere eleggono il Presidente della Repubblica e parte dei membri della Corte Costituzionale. Una modifica così profonda del Senato, che nella retorica renziana si vuole depotenziato, quasi inutile, ha imposto una rivisitazione anche delle modalità di elezione di questi organi.
Giustamente, il quorum minimo per eleggere il Presidente della Repubblica si alza, dalla maggioranza assoluta dei membri del Parlamento in seduta comune aumentato dei rappresentanti regionali, ai tre quinti del medesimo consesso (3/5 dei presenti al voto, dal settimo scrutinio, il che invero è un po' inquietante, non permettendo più ai parlamentari di bloccare l'elezione standosene a casa, ma tant'è).
Invece, per la Corte Costituzionale, c'è qualcosa di strano. Ad oggi, "la Corte costituzionale è composta di quindici giudici nominati per un terzo dal Presidente della Repubblica, per un terzo dal Parlamento in seduta comune e per un terzo dalle supreme magistrature ordinaria ed amministrative". I cinque giudici eletti dal Parlamento sono eletti a scrutinio segreto, con la maggioranza dei due terzi dei componenti l’Assemblea (tre quinti dal quarto scrutinio).
Con la riforma, tutto cambia: i cinque giudici sono eletti tre dalla Camera e due dal Senato. Ora, tre quinti della Camera significano soltanto il 5% di seggi in più di quelli che toccano al partito che vince le elezioni al ballottaggio. In sostanza, chi vince le elezioni si elegge tre giudici costituzionali da solo. Tre quinti del Senato, ugualmente, significano 60 senatori, cioè un numero che il governo controlla oppure con cui può facilmente trattare.
E questo, secondo me, è pericolosissimo. Se ne parla poco, come di tutti i dettagli in cui, spesso, si nasconde il Diavolo.

Cercare di controllare la Corte Costituzionale significa, in sostanza, meditare di scardinare i principi fondanti della nostra Costituzione. Così come d'altronde richiesto, a suo tempo, a Matteo.
Richiesto... meglio: intimato.
(Poi mi raccomando chiedetevi come mai Viola, che voleva sistemare il Monte quanto prima e non dopo il referendum, sia stato giubilato).

Qui si incardina il secondo obiettivo.
Partiamo da un'osservazione. È singolare che, mentre ad oggi "ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione" (art. 67), nel Senato renziano i senatori sono "rappresentativi delle istituzioni territoriali" che li hanno eletti (art. 57).
Tradotto in altri termini: i nuovi Senatori renziani non sono tenuti a perseguire gli interessi nazionali.
Già appare assurdo pensare che coloro che fanno parte del Senato ITALIANO possano perseguire gli interessi di una parte (una REGIONE) anche se in contrasto con quelli del tutto. Ma, a ben vedere, le cose non stanno proprio così.
Primo, perché il nuovo Senato sarà quanto di più lontano dalla rappresentanza dei territori regionali, sia per quanto espresso dal prof. Onida qui sotto, sia perché, evidentemente, nell'elezione dei rappresentanti al Senato le minoranze regionali saranno ovviamente conculcate.


Secondo, perché ai sensi dell'art. 55 del nuovo testo che auspicabilmente sarà tra due mesi bocciato dal popolo italiano, "il Senato della Repubblica rappresenta le istituzioni territoriali ed esercita funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica. Concorre all'esercizio della funzione legislativa nei casi e secondo le modalità stabiliti dalla Costituzione, nonché all'esercizio delle funzioni di raccordo tra lo Stato, gli altri enti costitutivi della Repubblica e l’Unione europea. Partecipa alle decisioni dirette alla formazione e all'attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione europea. Valuta le politiche pubbliche e l’attività delle pubbliche amministrazioni e verifica l’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori. Concorre ad esprimere pareri sulle nomine di competenza del Governo nei casi previsti dalla legge e a verificare l’attuazione delle leggi dello Stato".
Chiaro? I Senatori, che non rappresentano più la Nazione, devono però verificare "l'impatto della legislazione europea" e partecipare alla "attuazione delle politiche dell'Unione".

In sostanza, la nostra sarà (sarebbe) l'unica Costituzione in tutto il Continente a sancire l'obbligatorietà di attuazione delle politiche europee lato sensu intese, oltre che a prevedere un Organo costituzionale che, in sostanza, funge da prefetto del pretorio di Bruxelles a Roma.
Una specie di Seiano, uomo intelligente, accorto e cinico: "corpus illi laborum tolerans, animus audax; sui obtegens, in alios criminator; iuxta adulatio et superbia; palam compositus pudor, intus summa apiscendi libido, eiusque causa modo largitio et luxus, saepius industria ac vigilantia, haud minus noxiae quotiens parando regno finguntur". Che però finì ammazzato.

Per dirlo col linguaggio tecnicamente ineccepibile del Presidente Barra Caracciolo:
O, più prosaicamente:

Paio complottista.
In realtà, che questa sia la ratio della riforma è stato scritto nero su bianco dallo stesso governo. Proprio dal governo, e in un atto ufficiale!
I sostenitori del sì (soprattutto i più dementi) obiettano che, in realtà, il diritto comunitario è già entrato nella nostra Carta Costituzionale dalla porta principale: l'art. 117, c. 1, come modificato dalla dissennata riforma del 2001, statuisce infatti che "la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni" non soltanto "nel rispetto della Costituzione", ma anche "dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali".
In realtà, non è così. E chi lo dice o è in malafede o è un gonzo. O tutt'e due le cose insieme.
Infatti l'introduzione di questa disposizione nella Carta (norma che, comunque, resta particolarmente odiosa, quasi provocatoria, non a caso ultimo frutto avvelenato di quella stagione di europeismo orrendo che sono i governi Prodi, D'Alema e Amato) non ha spostato di una virgola il modello tracciato dalla Corte Costituzionale quanto al regime di applicazione del diritto europeo, che continua a fondarsi sulla possibile "limitazione di sovranità" prevista dall'art. 11.
L’art. 117, c. 1, è piuttosto una norma che, sul piano dell’esercizio della funzione legislativa, prende atto di un processo, in corso, di integrazione fra ordinamenti, senza per questo imporre una visione "monistica" (che, anzi, la Corte esclude: cfr. Corte Cost., 13 febbraio 2008, n. 102) degli stessi. In altri termini, è come se si dicesse: "legislatore, attento quando legiferi, perché - ad oggi - hai preso impegni con l'UE e con la comunità internazionale. Ai sensi dell'art. 11, devi rispettarli".Tutto qui, né più né meno.

IL NUOVO ART. 55 È BEN DIVERSO. TI IMPONE DI ATTUARE LE FUTURE POLITICHE UE, CHE SONO COME COSTITUZIONALIZZATE.
FORSE È GIUSTO COSÌ: SIAMO GIÀ UNA COLONIA - NON POSSIAMO BATTERE MONETA, NON CONTROLLIAMO I NOSTRI CONFINI, FACCIAMO RICHIESTE STRACCIONE AI TEDESCHI PER POTER AVERE QUALCHE MARGINE DI POLITICA FISCALE - SCRIVIAMOLO UNA VOLTA PER TUTTE E FACCIAMOLA FINITA.

In questo senso è interessantissimo anche il discorso di Alberto Bagnai, il quale evidenzia come il tentativo di riportare una maggiore centralizzazione della funzione legislativa dopo il pastrocchio della modifica del Titolo V voluta da Amato nel 2001 sia funzionale proprio a rendere maggiormente efficace questa "cinghia di trasmissione" fra volontà di Bruxelles e assoggettamento di Roma.

(Il che fa anche capire che senso abbia trasmettere e guardare una trasmissione in cui si scontrano un Eurista per il sì con un Eurista per il no. Io - proprio perché l'ho capito - la trasmissione non l'ho guardata, ma non faccio fatica a credere che abbia vinto Renzi. L'Eurista per il sì è necessariamente più conseguente dell'Eurista per il no).

Cinghia di trasmissione, ovviamente, che tanto più è efficiente quanto più il Parlamento è subalterno al Governo.
E qui entrano in gioco tutte le contestazioni fatte all'Italicum, le polemiche sulle preferenze, il fatto che solo un ramo del Parlamento esprima la fiducia, e così via; ma si tratta, in fondo, solo di corollari.

Sulla stessa linea d'onda riporto qui un articolo di Giuseppe Palma, che condivido sostanzialmente appieno.


martedì 7 giugno 2016

Meno spese no, meno rappresentanza sì (i risparmi di Matteo e Meb)

Nel precedente post ho succintamente tratteggiato i risultati deleteri, in termini di compressione della democrazia, che avrebbe il combinato disposto della conferma referendaria della nuova Costituzione Renzi-Boschi e dell'applicazione della attuale legge elettorale (il c.d. Italicum).
Ad adiuvandum, come si sarebbe detto una volta, rimando a questa intervista a Zagrebelsky. Quando Ezio Mauro sottolinea di essere preoccupato non certo dall'abolizione del Senato, ma dell'erosione del "welfare state, di quella che abbiamo chiamato l'economia sociale di mercato, della democrazia del lavoro", il Costituzionalista risponde: "anche per me questa è la vera posta in gioco. Guardi però che tutto nel nostro discorso si tiene, dal welfare al referendum. Sennò non si capirebbe, di fronte all'enormità dei problemi che abbiamo, tanto accanimento nei confronti del povero Senato. Il «sì» spianerebbe una strada; il «no» farebbe resistenza".
Poi, certo, subito dopo queste sagge parole si scivola nel più Europa e nello spirito di Ventotene, ma pretendere che Zagrebelsky si trasformi di colpo in Bagnai pare francamente chiedere troppo. A ogni giorno la sua pena.

Veniamo ora al secondo punto del famoso volantino dei deputati e senatori PD, da cui ha preso le mosse questa serie di considerazioni.
Lieve imprecisione numero due.


Il riferimento alla "sobrietà" è doppiamente odioso sia perché richiama un'esperienza di governo che più di ogni altra ha lasciato ferite aperte nel tessuto sociale italiano (e non per sbaglio, come ampiamente documentato), sia perché trasforma una questione eminentemente politica (quale è quella in ordine al perimetro della spesa pubblica, cioè - in altri termini - al ruolo dello stato in economia, la cui risposta, in termini di maggiore o minore coinvolgimento, comporta anche significativi effetti redistributivi della ricchezza nazionale) in una questione morale e, ipso facto, pre-politica.
La sobrietà, o - come la si definiva una volta - la temperanza, pare infatti essere una virtù. In particolare, è il tratto distintivo del buon padre di famiglia borghese, che non spende se non quello che ha guadagnato ed anzi qualcosa di meno, in caso di futuri tempi difficili.
La sobrietà, in altri termini, è la "traduzione in etica" del pareggio di bilancio (o, meglio, dell'avanzo primario), chiave di volta di quel mito della scarsità della moneta da cui promanano, come una specie di mefitica sorgente, i ruscelletti purulenti delle privatizzazioni (o del project financing), dei tagli allo stato sociale, e giù giù per li rami fino all'imposizione della patrimoniale per poveri.
Già questa adesione incondizionata al mantra dello Stato minimo basterebbe a dimostrare - soprattutto nel quadro della crisi quasi decennale che ci attanaglia - che PD non significa "Partito Democratico", bensì Partito Deflazionista (copyright: Alberto Bagnai). Tutto il PD, non solo il Renzi del Jobs Act: Bersani, per dire, intervistato dal Salmonato confindustriale, ricordò di essere, lui e i suoi sodali, quelli del rigore e "dell'Euro, quelli dei governi Prodi, Amato, D'Alema che fecero fede in condizioni difficili a tutti i patti internazionali, europei e occidentali, quelli di Ciampi e Padoa-Schioppa" (il nemico di qualsiasi tutela, per capirsi).
Chi auspica la sobrietà auspica la deflazione, chi auspica la deflazione è contro il lavoro e, essendo contro il lavoro, è anche contro la Carta Costituzionale che pone il lavoro a fondamento della Repubblica. Conseguentemente, appena può, la stravolge. Tout se tient, dice il saggio.
Oltre tutto, non sono neanche capaci.
Tagliano linearmente, per il solo piacere di tagliare (e lasciare nuovi spazi di intervento a pagamento a chi ne può approfittare).
Poi arriva la Corte Costituzionale, ahimé in grave ritardo, e li cazzia (la sentenza la trovate qui).


Non basta.
Il sullodato volantino, infatti, sembra dirci che, riducendo a 100 i senatori e rendendoli, per di più, part-time, lo Stato risparmierebbe un sacco di quattrini.
Secondo Lucio Malan, forzista che svolge il ruolo di questore in Senato, "risparmieremo più o meno 48 milioni di euro”, cioè meno del 9% rispetto ai 540 milioni di euro previsti nel budget 2016 della Camera alta (l'articolo completo, del Fatto Quotidiano, lo trovate qui). Infatti, i costi veri di un Organo costituzionale non derivano tanto dalle indennità di chi ne fa parte, quanto piuttosto dalle spese di struttura che - sia il Senato di 300 o di 100 persone - restano intatte (e ciò anche a prescindere dal fatto che il Senatore Malan è a mio avviso addirittura ottimista, perché parte dei risparmi per il Senato si tramuteranno in costi per le Regioni; ma - in fondo - sono questioni di lana caprina).
Se la riforma costituzionale avesse avuto davvero - come fine - quello di una riduzione dei costi, il Senato avrebbe dovuto essere abolito, non trasformato nel refugium peccatorum di consiglieri regionali in cerca di immunità, assai grati al Caro Leader che, permettendone l'elezione, probabilmente risolverà qualche problemino con questa o quella Procura della Repubblica. Al limite, se si fosse lasciato il Senato come stava e si fossero dimezzati i parlamentari, il risparmio sarebbe stato assai più cospicuo.
Quella del risparmio è una scusa, anche poco sostenibile. Non a caso, la tendenza alla semplificazione e allo slogan proprio della retorica propagandistica renziana (cioè, per i ganzi, dello story telling) è volta a far passare l'idea che il Senato sia stato abolito.
E non solo lo dicono, lo scrivono.

Purtroppissimo, il Senato continuerà ad esistere e - come abbiamo visto - potrà comunque pronunciarsi, più o meno efficacemente, un po' su tutti i disegni e progetti di legge. Proprio per questo, grazie al fantastico articolo 70 della nuova Costituzione, si creeranno continui, numerosissimi conflitti di competenza, che saranno risolti... dai Presidenti delle Camere, d'intesa tra loro, sulla base dei rispettivi regolamenti. E se non si mettono d'accordo? Boh. E se i regolamenti, effettivamente, confliggono? Boh. E se l'intesa è in realtà un compromesso non rispettoso di altre disposizioni, magari di rango costituzionale? Boh, di nuovo. Chi ha scritto il testo dimostra di essere davvero un fine giurista, e d'altronde non ci poteva attendere di meglio da chi ha concepito un Organo sostanzialmente soggetto a continuazione turnazione dei suoi membri (art: 57: "la durata del mandato dei senatori coincide con quella degli organi delle istituzioni territoriali dai quali sono stati eletti..."), ai quali non è più neppure riconosciuto - Dio solo sa perché - di rappresentare la Nazione (art. 55, c. 2, e art. 67).

Ma, in fondo, la questione vera, se proprio si vuole parlare di soldi, non è neppure questa.
Tutte le spese dello Stato inteso in senso lato (dunque compresi gli enti pubblici territoriali) sono infatti un nulla rispetto ai denari versati, di recente, all'Unione Europea per il salvataggio di alcuni Stati membri in teoria e di alcune banche franco-teutoniche in pratica (EFSF è l'acronimo di European Financial Stability Facility, meccanismo temporaneo di risoluzione delle crisi greca, irlandese e portoghese, creato a giugno 2010; in quanto temporaneo, non poteva far fronte a una crisi ormai perpetua, pertanto dal 2012 è stato sostituito dal Meccanismo europeo di stabilità, o ESM, che presta quattrini a destra e manca - Spagna, Cipro, di nuovo la Grecia - a seconda di dove scoppiano le bolle create dai dissennati prestiti della banche del Nord Europa).


Che poi, la medesima situazione, la si può rappresentare anche così (se qualcuno è interessato ai risultati di tutto questo spreco di denaro, può guardare qui).


A questi dati, si devono aggiungere i trasferimenti netti - netti!, cioè già decurtati di quanto di spettanza dell'Italia grazie ai mitici fondi europei che non saremmo capaci di spendere e che, invece, come ha ben dimostrato Romina Raponi, assai di sovente non possono e non devono essere spesi - che l'Italia fa annualmente all'Unione.
Si tratta di quasi 5 miliardi di Euro, più o meno il totale che spendiamo per tutti gli Organi costituzionali e per tutti gli Enti pubblici territoriali.
Ricordiamocelo. Oppure ascoltiamo Fabio Dragoni.

Un'ultima considerazione.
Se anche l'Italia davvero spendesse cifre significative per il mantenimento degli Organi costituzionali (e così non è), tutto sommato sarebbero soldi spesi bene. Perché rappresentano, in qualche modo, il costo della democrazia.
E poi, soprattutto:
Votare sì al referendum di ottobre potrebbe essere la decisione sbagliata definitiva.