Lasciamo da parte la filosofia o i grandi sistemi concettuali e scendiamo nel concreto.
Partiamo dall'assunto che non esiste una salute collettiva, bensì la salute di ciascuno e di tutti. Se fossimo un unico corpo biologico (come siamo un unico corpo sociale) allora è evidente che potremmo sacrificare un membro per la salute dell'organismo - lo dice anche Marco al cap. 9.
Però, purtroppo o per fortuna, non lo siamo. Pertanto la domanda è: è possibile, è giusto, sacrificare (o mettere in pericolo, anche potenziale) uno, o alcuni, per garantire la salute di altri, o di molti?
Per gli Aztechi, ad esempio, sì. Il sacrificio umano condanna uno per evitare l'ira del dio su tutta la popolazione. Un ragionamento analogo vale anche per la guerra moderna, durante la quale decine di migliaia di soldati sono mandati a morire per la proiezione di potenza del loro Paese (non a caso la "guerra al virus" è stato uno slogan assai abusato dai giornali durante la c.d. pandemia).
Se però caliamo il ragionamento nel nostro ordinamento, la risposta potrebbe essere un po' meno ovvia, fermo restando che la Corte Costituzionale la pensa in modo diverso ed avalla da trent'anni comportamenti muscolari dello Stato in materia (con una serie di sofismi, ma non entriamo in questo).Poiché - come si è detto all'inizio - non si tratta di contrapporrre il particolare al generale (chi lo fa, come molti politici di Forza Italia, lo fa per falsa coscienza), dobbiamo piuttosto chiederci come mediare razionalmente gli interessi del singolo con quelli di ciascun altro singolo.
Primo punto di attenzione: non cadere nella tentazione di attribuire valori differenti alle persone sulla base di categorie predeterminate (spesso costruite attraverso un pre-giudizio ideologico, che conduce necessariamente a dare per vera la tesi che si vuole provare, cioè - spesso - il sacrificio di alcuni a vantaggio di altri).
Giovani contro vecchi, sani contro fragili, dipendenti contro autonomi. Si è letto di tutto inquesti anni. Al contrario, non esiste un obbligo di rischio per i sani a favore dei fragili, come non esiste un opposto obbligo di soccombenza dei fragili sull'altare di esigenze economiche o sociali. Certamente, settuagenari e ottuagenari che sbraitano per la medicalizzazione dell'intera società al fine di guadagnare sei mesi di vita non hanno fatto, e non fanno, una gran bella figura.
Secondo punto di attenzione: rispettare l'autodeterminazione di tutti e di ciascuno ("prima la persona"). Non dovrebbe esistere la possibilità, per un terzo, di imporre ad alcuno un trattamento sanitario, salvo che il paziente non sia incapace di intendere e il trattamento sia necessario per la salvaguardia della sua vita o, almeno, della sua incolumità.
Men che meno - men che meno - se il terzo è lo Stato e non un familiare. I doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale sono probabilmente contestabili anche a priori, ma certamente - fuori dai casi coperti dall'at. 52 - non possono estendersi fino a richiedere il sacrificio di uno a vantaggio di altri.
Tutto il resto è ideologia, racconto oleografico o pianto da gattara.
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