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martedì 29 marzo 2016

Il Medioevo, di nuovo fra noi (o no?)

Ci sono voluti più di duecento anni, ma finalmente siamo riusciti a cancellare quell'accidente della storia noto come Illuminismo.
Ebbene sì, abbiamo lavorato tanto, ma l'obiettivo è raggiunto. Il Medioevo è finalmente di nuovo fra noi. Con le sue istituzioni onuste di storia, i suoi rivolgimenti politici, la sua profonda coesione spirituale... no vabbè questo no, ma insomma.
Volete di nuovo un condottiero che propugni l'unità del continente, un novello Carlo Magno? Ce l'abbiamo. Anzi, anche meglio, la scegliamo donna, così ne facciamo una specie di Giovanna d'Arco, ma rigorosamente a rovescio.
Eccola là, Laura Boldrini in tutto il suo splendore. Basta con la sovranità nazionale, basta con questo ferro vecchio dell'autodeterminazione: per vincere il califfato "è evidente che bisogna far lavorare insieme i servizi di intelligence..., e questo richiede più Europa. Bisogna colpirlo... nelle sue fonti di finanziamento, e questo richiede più Europa. Sono da bloccare le triangolazioni coperte che gli portano nuove armi, e questo richiede più Europa... L’Europa di cui i cittadini oggi avvertono ancor più il bisogno: forte, determinata, che non si fa dividere da piccole gelosie tra apparati o da singole convenienze commerciali... Ma perché tutto questo si realizzi stabilmente c’è un passo in più che dobbiamo fare, ed è il contributo che vorrei portare alla discussione comune. Senza giri di parole: si chiama integrazione politica". All'epoca si chiamava Impero e nel suo futuro ancora non si intravedeva qualche piccolo dissapore con gli Stati nazionali (con conseguenze nefaste, al solito, soprattutto per la nostra Penisola), ma insomma è lo stesso. D'altronde, anche Carlo cercò di riprendersi la Spagna dagli infedeli (ed a Roncisvalle il massacro fu perpetrato, per lo più, da baschi... evidentemente già autonomisti all'epoca).
Non è secondario, forse, anche ricordare che - col passar del tempo - anche gli Stati di allora iniziarono ad avere qualche problemino con le banche indipendenti e che, di converso, i banchieri iniziarono a temere i default sovrani, come diremmo oggi. Unica differenza, Bardi e Peruzzi, pur molto accorti, non ebbero l'intelligenza di inventare la Troika.
Non solo: grazie a questi giganti del pensiero, riusciamo a recuperare, d'amblée, tutta una teodicea del dolore: "il dolore aiuta a vedere [la necessità del 'più Europa'] con una nettezza inedita, ci spinge a mettere finalmente questi temi all'ordine del giorno con urgenza: perché più noi ci dilunghiamo alla ricerca di intese ostacolate dalle divisioni tra Stati, più i terroristi hanno campo libero per colpirci". Il male è necessario. Indica la via da perseguire. L'ha detto Sant'Agostino. L'ha detto - molto più autorevolmente, va da sé -Mario Monti.



Vabbè, direte voi. Tutto qui? E quel bel sistema fiscale che per interi secoli ha permesso la prosperità delle popolazioni europee, una crescita sostenibile, basata su agricoltura e pastorizia, tassi di inflazione quasi azzerati (come dimostrato, con tanto rimpianto, anche dal nostro economista de la gauche caviar preferito?).
Ci abbiamo anche quello! Non ci manca nulla.
Deflazione? Fatto!




Servitù della gleba? Fatto, in modo molto smart.

Corvée? Fatto!


(Baratto amministrativo per chi non può pagare le tasse locali? Fino a 21.000 Euro, con Monti. Costo orario del neo-schiavo? Fino a 10 Euro, con Monti. Esclusione dei vecchi perché poco produttivi? Non ha prezzo).
Ovviamente ci stiamo attrezzando per il testatico e per la decima. E possiamo dare sin da ora la bella notizia: siamo molto vicini al risultato. Per il primo, dobbiamo ringraziare essenzialmente Il Sole 24 Ore (che, in onere di questo revival vintage del Medioevo cambierà nome in Il Sole dalle Lodi a Compieta).
Per quanto attiene la decima, non più da versare alla Chiesa, ma allo Stato (anzi, si spera, al Super-Stato UE), c'è sempre il buon vecchio Piketty a proporla.
Ovviamente, abbiamo approntato - e da lungo tempo - anche una adeguata copertura religiosa. Credere, obbedire e combattere, come si sa.
Anche se, proprio a voler essere pignoli, qui pare a mio avviso confondersi Dio ed economia, o - ancora peggio - Dio e moneta. Senza necessariamente ritenere che il denaro sia lo sterco del Diavolo, tuttavia bisogna ricordare a certi disinvolti esegeti della morale cristiana che - anche con le maggiori capacità dialettiche del mondo - non si può servire Dio e Mammona.
D'altronde, proprio un grande storico - che allo "sterco del Diavolo" ha dedicato un libro fondamentale - ha mostrato come la cesura fra Medioevo ed Evo moderno sta proprio nel rapporto con il denaro: scompare la subordinazione della moneta alla carità (così come tutte le attività umane sono soggette alla Grazia di Dio), nasce la religione della competizione, della lotta individuale dell’uno contro l’altro, del successo ad ogni costo.
No, forse non siamo tornati al Medioevo.

venerdì 25 marzo 2016

La situazione è grave (ma, come al solito, non seria)

Dopo tutto quello che è successo, preferisco parlare di argomenti leggeri.
Talmente leggeri che rischiano di essere spazzati via alla prima folata di vento. Indovinato, si tratta delle banche italiane.
Come si sa, prima la fusione tra Banco Popolare e Banca Popolare di Milano si doveva fare, poi invece dopo la letterina della BCE non si doveva fare più, poi per gli interessamenti di Matteo e del suo Caimano preferito si è fatta di nuovo.
Sul campo, è rimasto un miliardino di aumento di capitale che sarà lanciato da BP. Anche perché... la vigilanza europea è un pochino meno discreta di quella italica.
Non entro nel merito della fusione (che a mio avviso - ma potrei sbagliare - lascerà il segno nelle tasche dei piccoli investitori ma porterà alla nascita di una banca solida e piuttosto redditizia... per gli investitori più grandi).
Mi interessa piuttosto valutare l'impatto del sullodato pizzino della Vigilanza europea, dal quale si evincono un paio di linee guida che, forse, potrebbero risultare applicabili a tutte le banche. Tra queste, che i crediti deteriorati netti debbano essere inferiori al 12% degli impieghi e che le esposizioni lorde abbiano tassi di copertura non molto al di sotto del 50%.

(Ovviamente si tratta di soglie messe a caso. Ma l'Unione Monetaria è costruita su soglie messe a caso. Nihil sub soli novum).

Embè? Direte voi.
Embè... Ora si dà il caso che alcune banche italiane - ad esempio il Credito Emiliano - non rispettino la soglia del 12%, ma che ce ne sia soprattutto una che, ahimé, si approssima al 22%. Non vi chiedo di indovinare di quale banca si tratta, perché vincereste. Però aggiungo che, con un rapido calcolo, se Mps volesse rientrare nel parametro per via di svalutazione crediti... diciamo che dopo la cura semplicemente non avrebbe più capitale.
Giustamente, già all'indomani della letterina della Banca Centrale mi è stato fatto notare come, forse, dico forse, l'effetto collaterale fosse ben presente al regolatore.
Io, dal canto mio, ho di conseguenza tirato una rapida conclusione.
Certo, ci sarebbero un paio di soluzioni. Dalle più estreme, e dunque probabili:
a quelle meno impattanti (qui accanto), e dunque sicuramente escluse.

A credere ai rumors (e, normalmente, Il Fatto Quotidiano e Dagospia ci prendono), la strada - intermedia - sarebbe quella di far acquistare buona parte delle sofferenze di Montepaschi alla Cassa Depositi e Prestiti (sfruttando anche l'aborto di garanzia statale prodotta dai colloqui fra Padoan e la Commissione Europea) e di coprire le inevitabili perdite con l'ennesimo aumento di capitale.
Tre miliardi e passa la paura, per la BCE. L'istituto senese ha smentito.
Ma non è questo il punto. E non è neppure il punto se il Tesoro debba utilizzare questa eventuale opportunità per incrementare il suo 7% nell'istituto, o se utilizzare in questo modo la CDP metta in pericolo il risparmio postale. Queste sono questioni molto importanti, ma non colgono la questione principale.
Il punto è un altro e deve essere messo bene in evidenza.

Il punto è che le soglie imposte a BP e BPM dalla BCE sono in larga parte arbitrarie. Il punto è che l'applicazione di tali soglie conduce a risultati, in termini di necessità di capitale, totalmente divergenti rispetto a quelli derivanti dal c.d. SREP dello scorso novembre. Il punto è che un approccio così duro da parte del Sistema di vigilanza comune contraddice frontalmente l'apertura e il messaggio tranquillizzante lanciato recentemente da Draghi in relazione ai crediti deteriorati detenuti dalle banche italiane. Il punto è che, alla fine di questa fusione, il mercato - che si aspettava chiarezza dal regolatore - si trova a brancolare ancora di più nel buio, con evidente conseguenze negative a livello economico-finanziario. Il punto, soprattutto, è che - volenti o nolenti - la BCE (l'organo forse più al riparo, fra quelli europei, dal processo democratico, per dirla con quel gran progressista di Mario Monti) continua inauditamente a fare politica.

Se la BCE vuole, il sistema bancario italiano in qualche modo tira avanti (sempre che qualcuno, prima o poi, capisca che il modo vero di risolvere la questione degli NPL... è creare condizioni di ripresa economica. Ma lasciamo perdere). Se la BCE non vuole, salta il banco. Ora, non sto a dirvi chi sono e a che nazionalità appartengono i personaggi chiave della partita. Non lo faccio, perché c'è chi lo ha già fatto magistralmente.

Ah... per chi volesse farmi passare per complottista, ci sono sempre gli altri indizi, a pesare come macigni. Tanto per dire:
La situazione è molto grave. Ma, come al solito, non seria.

lunedì 21 marzo 2016

#erasmus

Sono morti dei ragazzi. Mi viene una vertigine a pensare il dolore infinito di quelle famiglie.
È una tragedia enorme e assurda.
Che, forse, potrebbe servire a riflettere sul perché nessuno mai, sui pullman, utilizzi la cintura di sicurezza, oppure sull'adeguatezza delle norme di sicurezza che dovrebbero evitare di avere un autista talmente stanco da soccombere a un attacco di sonno.
Invece no.
Invece quelle merde delle nostre élites devono strumentalizzare anche queste morti al grido di "più Europa", "più Erasmus", "più apolidia".
Sono sempre i soliti.
C'è quella merda di Severgnini.
C'è quella merda di Davide Serra.
C'è quella merda di Federico Taddia.
C'è quella merda di Roberto Speranza.
C'è la merda egolatra.
Poi c'è la over-merda, lo sciacallo.
Non continuo. Non ce la faccio.
Mi fate schifo.

domenica 20 marzo 2016

L'ipostatizzazione dell'Euro (un paio di domande a Salvati)

Ho letto l'articolo di Michele Salvati sul corriere on line di giovedì ed ho deciso di scrivere le brevi considerazioni che seguono. Le ho inviate al Corriere, sperando in una risposta che non credo arriverà. Dunque le ripubblico anche qui, con qualche aggiunta di contorno (tra parentesi). Anche se, con poche righe, c'è già chi ha risposto meglio di me.

Il messaggio dell'articolo è molto chiaro: in un contesto di deflazione globale (causato principalmente dal rallentamento della Cina e dal calo del prezzo del petrolio), la crescita dei Paesi occidentali dovrebbe passare per un rinnovato stimolo della domanda interna; tale opzione è pero resa difficile negli USA dalla sperequata distribuzione dei redditi, impossibile nella UE per la politica mercantilista dei Paesi del Nord e della Germania in particolare. Pertanto, le uniche politiche contro la deflazione sono quelle, di natura monetaria, portate avanti dalla BCE, con risultati molto limitati; se fallissero, resterebbe soltanto la mossa disperata della helicopter money (per cui v. sotto!, N.d.R.).
In questo quadro, il governo italiano persegue tre obiettivi: la permanenza dell'Italia nell'Eurozona, la richiesta all'UE di maggiori margini di manovra in tema di bilancio pubblico, una "accelerazione delle politiche strutturali per rendere il nostro Paese più efficiente nel comparto pubblico e più competitivo in quello privato".
Salvati sposa le linee di azione, ma ritiene che, rispetto alla terza, non si faccia abbastanza. A suo avviso,  per "mettere al riparo il Paese dal pericolo di attacchi speculativi cui l'espone il suo enorme debito pubblico" sarebbe necessaria una sostanziosa patrimoniale una tantum. Infatti, "ai detentori dei titoli del nostro debito non interessa che gli italiani siano ricchi, vogliono essere ragionevolmente sicuri che quei titoli verranno ripagati". Per l'efficientamento del privato - posto che la produttività "stagna da venti anni", le esportazioni "tengono a malapena il passo delle importazioni" e la disoccupazione è molto elevata - l'unica ricetta applicabile (non potendo svalutare la moneta, dato che abbiamo l'Euro) è quella di una riduzione dei salari nominali.

Salvati è un economista e un giurista. Ma queste cose le pubblica sul Corriere al fine, immagino, di renderle fruibili al cittadino medio, come me. Dunque, spetta al cittadino medio chiedere spiegazioni di quello che ha scritto... "a rime baciate", per usare l'espressione di un altro economista. I professionisti risponderanno se vogliono, e in modo ben diverso da me.
Prendo per buona la ricostruzione delle cause della deflazione (anche se, per dire, il prezzo del petrolio è stato anche più basso dell'attuale per tutta la seconda metà degli anni Novanta ed agli stessi livelli di oggi almeno fino al 2005) e delle supposte intenzioni del nostro governo (io il nostro premier proprio non lo capisco, dunque non mi azzardo a proporre opzioni diverse).
Voglio invece concentrarmi su un punto diverso, cioè la tendenza di un certo giornalismo a descrivere determinate dinamiche non come il prodotto di scelte (legislative ed economiche) di per sé transeunti (in altri termini: modificabili), ma come dati di fatto, dunque immutabili. Vincoli esterni, si legge spesso. Dice Salvati: siccome il nostro debito pubblico è molto elevato (primo dato di fatto), e siccome questo debito deve essere acquistato sui mercati (secondo dato di fatto), saremmo obbligati a riaffermare la solvibilità dell'Italia attraverso - diciamo - una "patrimoniale dimostrativa" (conseguenza necessaria).
Ora, il secondo "dato di fatto" non è una catastrofe naturale o un ineluttabile fenomeno fisico, è semplicemente una scelta politica sedimentatasi negli ultimi trent'anni, prima col "divorzio" fra Tesoro e Banca d'Italia (che ha cancellato l'obbligo della Banca centrale a garantire il collocamento integrale in asta dei Titoli di Stato), quindi con i Trattati europei, che hanno espressamente vietato alla BCE "qualsiasi... forma di facilitazione creditizia... alle amministrazioni statali..., così come l'acquisto diretto presso di essi di titoli di debito..." (art. 123 del TFUE).
Prima del 1981, la frase di Salvati sarebbe suonata in modo molto diverso: siccome il nostro debito, per la parte non acquistata in asta, è garantito dalla Banca d'Italia, la solvibilità dell'Italia è ipso facto assicurata. Noto di passaggio che questa proposizione si tradurrebbe in altre lingue non europee, per esempio in giapponese, con infinità maggior facilità di quella originale.
Date certe premesse, si impongono necessariamente certe conclusioni (almeno così dicono in prima liceo), il punto è che l'Autore quelle premesse non solo non le spiega, ma neppure le enuncia.
Se la rinuncia, da parte dell'Italia, alla propria sovranità monetaria può comportare per i cittadini, fra le altre cose, sacrifici economici significativi (come una patrimoniale), dovrebbero essere chiari i vantaggi che riequilibrino - o, meglio, superino - gli svantaggi di questa rinuncia. Salvati non dice nulla.
Di solito, nei talk-show (sì, perché io - come, credo, ogni persona che non è un economista professionale - non conosco alcun saggio, o articolo, che spieghi con precisione l'utilità di far parte dell'UEM), nei talk-show, dicevo, le motivazioni sono tre: fuori dall'Euro c'è l'inflazione, fuori dall'Euro la rata del mutuo andrebbe alle stelle, fuori dall'Euro saremmo commercialmente schiacciati. Ora: aver paura dell'inflazione nel bel mezzo di una deflazione non sembra proprio un ragionamento coerente; le rate del mutuo normalmente sono agganciate all'Euribor, cioè a un tasso interbancario a livello europeo che dunque reagisce solo molto parzialmente alle vicende italiane; se la Svezia o l'Islanda si muovono autonomamente sui mercati internazionali con discreti risultati, probabilmente lo potrebbe fare anche il nostro Paese.
Dunque ci deve essere dell'altro. Ma cosa? Non sarebbe il caso di informare meglio i cittadini come me? Mica per altro, ma per un minimo di rispetto della democrazia.

(Secondo noti disfattisti la domanda di cui sopra apparirebbe leggermente retorica...
Ecco).

Secondo, la questione della competitività del settore privato.
Non sono sicuro di aver capito il pensiero dell'Autore, che mi pare voglia ridurre la disoccupazione mediante la deflazione salariale.

(Ah... a proposito... la situazione ad oggi è questa.
Andiamo avanti...).

Comunque, anche in questo caso, Salvati parte da un postulato che è tale soltanto da vent'anni: non possiamo svalutare la moneta, quindi dobbiamo svalutare il lavoro. Quello che invece non spiega è cosa vieti di rigirare la frase: siccome non vogliamo svalutare il lavoro - anzi: siccome è contrario a Costituzione svalutare il lavoro - ripristiniamo le condizioni per svalutare la moneta.
Perché no? Cosa può succedere che non sia già successo? Anche qui, di solito si sentono una serie di argomentazioni che, a dirla tutta, vere argomentazioni non sono (il peggio è qui).
Il bank run? Eppure non mi sembra che la Grecia sia uscita dall'Euro (tralasciando il fatto che certe fosche descrizioni si basano sull'assunto che non sia possibile istituire nuovamente un controllo sui capitali: di nuovo, una costatazione di fatto trasformata in un dato di fatto). L'inflazione? Magari! Anche se certe previsione paiono sinceramente un po' catastrofiche. La perdita di potere di acquisto delle merci estere? O mio Dio, se usciamo dall'Euro saremo costretti a compare un po' più italiano! L'Italia che ripaga i creditori stranieri con moneta svalutata. Più che un problema per noi, forse questo è un grosso problema per gli altri.
Dunque, anche qui, ci deve essere dell'altro.
Lo ripeto: secondo me nell'articolo di Salvati manca proprio questo. Il "resto". Il mio stipendio è stato ridotto del 40% in due anni dall'azienda dove lavoro. Penso di avere diritto a conoscerne i motivi. Di più: penso di avere il diritto a capire quali sono i vantaggi per la collettività, tali da rendere giusto un sacrificio così alto per me e per la mia famiglia.

Mi piacerebbe avere una risposta. In mancanza, concluderò quello che temo. Che chi ci doveva rappresentare, in realtà ci ha traditi.

venerdì 18 marzo 2016

Notizie e notiziuole: Banco Popolare sulla fusione con Popolare di Milano

La fusione tra Banco Popolare e Banca Popolare di Milano non si fa più.
Per chi fosse interessato ai "retroscena", mi sembra interessante questo articolo di Dagospia.


COMUNICAZIONE AL PUBBLICO AI SENSI DELL'ART. 114, COMMA 5, D. Lgs. N. 58 DEL 1998

A seguito della richiesta di Consob, il Banco Popolare rileva che, nel quadro delle interlocuzioni preliminari con la Banca Centrale Europea ("BCE") per quanto riguarda una possibile operazione di fusione tra il Banco Popolare e Banca Popolare di Milano, il 16 marzo 2016 la banca ha ricevuto una lettera dalla BCE relativo all'eventuale accordo di fusione.
In questa lettera, la BCE ha chiesto alle parti di presentare, entro un mese, un business plan pluriennale, nonché una bozza del nuovo statuto sociale derivante dalla potenziale operazione di fusione.
La BCE ha sottolineato che, nel caso in cui l'operazione si verifichi, la società risultante dalla fusione, che diverrebbe il terzo polo creditizio italiano, dovrebbe da subito - in coerenza con il ruolo che assumerebbe nel mercato domestico - essere in una forte posizione in termini di capitale e di qualità degli attivi, anche attraverso azioni di capitale.
Con riferimento alla governance, la BCE ha indicato che la banca risultante da tale operazione di fusione dovrebbe tener conto delle migliori prassi (best practice) volte a garantire una governance chiara ed efficace, in particolare in relazione al funzionamento degli organi sociali (assemblea, Consiglio di amministrazione, Comitato esecutivo). Inoltre, sempre nel quadro dell'operazione straordinaria in questione, non è prevista l'emissione di nuove licenze bancarie in relazione a entità diverse da quella risultante dal potenziale operazione di fusione.
In relazione a quanto sopra, il Banco Popolare ha intenzione di convocare nel più breve tempo possibile una riunione del Consiglio di amministrazione, che si terrà in ogni caso non oltre il 22 marzo. Banco Popolare comunicherà al mercato, senza indugio, l'esito della riunione.


Communication to the public pursuant to art. 114, paragraph 5, Law Decree 58/98
ECB letter on potential merger transaction between Banco Popolare and Banca Popolare di Milano

Following a request from Consob, Banco Popolare notes that, as part of preliminary discussions with the European Central Bank (“ECB”) regarding a potential merger transaction between Banco Popolare and Banca Popolare di Milano, on 16 March 2016 the bank has received a letter from the ECB concerning the potential deal.
In this letter, the ECB has requested to the parties to submit to them, within a one-month period, a pluriannual business plan as well as a draft version of the corporate bylaws resulting from the potential merger transaction.
The ECB has pointed out that, in case the operation were finalized, the company resulting from the merger, which would become Italy’s third largest, in coherence with the role it would take on in the domestic market, should from the start be in a strong position in terms of capital and asset quality, also via capital actions.
With reference to governance, the ECB has indicated that the bank resulting from such a merger transaction should take into account the best practice aimed at ensuring a clear and efficient governance, in particular in relation to the functioning of the corporate bodies (Shareholders’ Meeting, Board of Directors, Executive Committee). Moreover, within the potential merger transaction, the issuance of new banking licenses in relation to entities different from the one resulting from the potential merger transaction is not envisaged.
In relation to the above, Banco Popolare plans to convene a meeting of the Board of Directors as soon as possible, to be held in any case no later than 22 March. Banco Popolare shall inform the market without delay about the outcome of this Board meeting.

* * * * *

Contrordine, la fusione si fa. L'ha detto Renzi. Basta un miliardino, che vuoi che sia. Citavo Dagospia sopra, cito Dagospia anche qui sotto. A futura memoria, mi butto: i piccoli risparmiatori ci perderanno quanto sta bene, ma la banca funzionerà.

martedì 15 marzo 2016

Piketty, gli manca solo il loden

Finalmente ho terminato la lettura de "Il Capitale nel XXI secolo" di Thomas Piketty.
Chi non l'ha fatto, comunque, può tranquillamente restare nell'ignoranza.
Il saggio ha mille difetti, il minore dei quali è quello di essere lungo poco meno della Bibbia, peraltro con risultati - si spera - assai meno profondi e duraturi: è tutto incentrato sul capitale, ma non prende mai in considerazione i capitalisti (per cui, sembrerebbe, si dovrebbero tassare allo stesso modo il professionista che si è fatto la villa alle porte di Roma e la casa al Circeo, l'imprenditore che possiede la maggioranza di una media azienda che fattura qualche milione di Euro all'anno, il manager che - giusto alla pensione - investe la liquidazione in strumenti finanziari); sospetta fortemente il debito pubblico - in base, par di capire, ad una concezione un po' aziendalistica dello Stato sociale -, ma non si interessa in alcun modo al debito privato (che è visto, in sostanza, come un "minor capitale"), né valuta in profondità gli effetti delle bilance dei pagamenti (d'altronde, per Piketty l'ottimo sarebbe un unico governo mondiale, anzi galattico); postula tassi di rendimento pressoché stabili nel tempo per il capitale (che, nel retro-pensiero dell'autore, è eminentemente finanziario: azioni, obbligazioni e titoli di Stato), senza però mai porsi il problema della formazione di quei tassi (sono per esempio totalmente assenti le dinamiche salariali, o le scelte normative in materia bancaria); annette importanza, nella riduzione della concentrazione patrimoniale nel secondo dopoguerra, alle sole imposte progressive, senza in alcun mondo considerare la le dinamiche salariali (rispetto alle quali, io guarderei questo); soprattutto, annacqua in affreschi anche di lunghissimo periodo fibrillazioni epocali derivanti da fondamentali eventi sociali, politici, legislativi (con esclusione, bontà sua, delle Guerre Mondiali).
Però, ad onor del vero, bisogna riconoscere a Piketty quanto meno un gran pregio, che è quello di parlare sempre molto chiaro.
Per uno Stato, esistono soprattutto due modi per finanziare le proprie spese: con l'imposta o con il debito. In generale, l'imposta è di gran lunga preferibile, sia in termini di giustizia che in termini di efficacia. Il problema del debito consiste nel fatto che il più delle volte deve essere ripagato, per cui va generalmente incontro agli interessi di chi disponeva di mezzi finanziari per portare soldi allo Stato, a cui sarebbe stato meglio far pagare le imposte... Esistono soprattutto tre metodi principali, coniugabili in proporzioni diverse: l'imposta sul capitale, l'inflazione e l'austerità. La soluzione di gran lunga più soddisfacente per ridurre il debito pubblico consiste nel prelievo di un'imposta eccezionale sul capitale privato. Per esempio, un'imposta proporzionale del 15% su tutti i patrimoni privati... equivarrebbe alla cancellazione totale del debito pubblico, pur con due differenze essenziali. È sempre molto difficile prevedere il grado d'incidenza finale di una cancellazione, anche parziale. Misure simili... sono state spesso impiegate in situazioni di crisi estrema..., per esempio in Grecia..., informa di haircut. Il problema è che, se la misura viene applicata su vasta scala, per esempio su scala europea e non solo greca..., è molto probabile che si scateni un'ondata di panico bancario e ne consegua una serie di fallimenti a catena... Il vantaggio della soluzione fiscale è che permette di modulare lo sforzo richiesto a seconda del livello di patrimonio di ciascuno... Meglio applicare un'imposta progressiva... In una certa misura, è già quanto stanno promuovendo le leggi bancarie europee, quando, in genere, garantiscono in caso di fallimento i depositi inferiori a 100.000 Euro... In ogni caso, sarebbe eccessivo pretendere di azzerare il debito pubblico in un colpo solo. Più realisticamente, supponiamo che si cerchi di ridurre i debiti degli Stati europei del 20% circa del PIL, che permetterebbe di passare... a un livello che si avvicinerebbe alla quota di indebitamento massimo... fissata dagli attuali Trattati europei... Per ottenere in una sola volta il 20% del PIL in entrate fiscali, basterebbe... applicare un'imposta eccezionale..., [ma] è anche possibile ottenere il medesimo risultato applicando per dieci anni l'imposta progressiva con tassi... dell'1% e del 2% e destinando le entrate a un alleggerimento del debito, per esempio con i c.d. "fondi di redenzione del debito", proposti nel 2011 dal consiglio di esperti economici attivato dal governo tedesco.
È chiaro cosa sta dicendo questo campione degli oppressi? È chiaro?
Prima, si inizia con una tirata contro i ricchi capitalisti avvoltoi che prestano soldi allo Stato onde farsi rimpinguare di interessi. Poi, però, si tira giù la maschera e si dice chiaramente che, quando un debito pubblico diviene insostenibile, c'è il rischio concreto che non sia ripagato e che dunque ne vadano di mezzo i principali detentori del medesimo.
Chi? Degli sporchi capitalisti nascosti in qualche villa silenziosa? Dalle famiglie (come si esprime Piketty a pagina 863)? No, le banche. Le banche. Le banche. Ripeto: le banche.
I cittadini entrano in gioco qui: si svenino, ma ripaghino questo maledetto debito alle istituzioni finanziarie che lo detengono, senza se e senza ma.
Vi ricorda qualcosa? Vi aiuto, col noto disegnino (piuttosto auto-esplicativo) del Sole 24 Ore. Non solo: lo stesso Piketty cita il caso di Cipro, in cui "le autorità europee hanno esitato a impiegare il denaro del contribuente europeo per rimettere in sesto senza contropartita le banche cipriote, anche perché si sarebbe trattato in sostanza di salvare dei miliardari russi". Ecco, secondo il Nostro, "nel caso cipriota non sarebbe stato così scioccante chiedere uno sforzo ai risparmiatori, dal momento che è il Paese nel suo complesso a essere corresponsabile della strategia di sviluppo adottata dal governo".

Ecco dunque spiegata anche la ratio del bail-in.
Il bail-in altro non è che una forma particolare di imposta patrimoniale, applicata selettivamente alle persone fisiche o giuridiche che possiedono attivi in qualche collegati a una banca in difficoltà, al fine di trasferire ricchezza dalle prime alla seconda senza l'intermediazione statale.
Punto.
Piketty, in sostanza, sposa - sulla questione del debito pubblico - lo stesso identico punto di vista non soltanto del nostro esimio Senatore a vita ed esecrato a morte Mario Monti, ma anche della Bundesbank. Due campioni della sinistra, in sostanza.
Anche a Monti, peraltro, non manca di certo il dono della chiarezza (e - va detto - è anche più asciutto di Piketty).



Ma Piketty non si ferma qui. Prima, indica nelle norme dei Trattati europei un riferimento per la determinazione di un ammontare "giusto" del debito (il che già dà un'idea del soggetto con cui si ha a che fare), poi addirittura rispolvera l'idea dell'European Redemption Fund (ERF).
Ora, l'ERF - un fondo europeo in cui sarebbero conferiti asset patrimoniali e riserve auree dei singoli Paesi, oltre all'IVA esatta da ciascuno - altro non è che un meccanismo automatico per lo smantellamento della personalità giuridica degli Stati nazionali, che permetterebbe l'automatico rispetto del Fiscal Compact (e, quindi, la fine dello Stato sociale come noi lo conosciamo): infatti, il Fondo funzionerebbe in sostanza come una "cambiale in bianco" incassata direttamente in caso di mancata riduzione del debito da parte di questo o quello Stato (come ben spiega Marco Mori in un bell'articolo qui).
Piketty, comunque, non si nasconde che un altro modo per abbattere il debito pubblico sarebbe quello, più volte sperimentato in passato, di incrementare l'inflazione.
Quella dell'inflazione è certo una soluzione molto attraente. La maggioranza dei più alti debiti pubblici della storia d'Europa... è stata ridotta in questo modo...Ciò posto, vale la pena di insistere anche sul fatto che l'inflazione non è che un sostituto molto imperfetto dell'imposta progressiva sul capitale e può comportare una serie di effetti collaterali poco gradevoli. La prima difficoltà connaturata all'inflazione è il rischio che vada fuori controllo... La seconda difficoltà connaturata all'inflazione è che perde buona parte degli effetti desiderati quando diventa permanente e anticipata... A favore dell'inflazione resta un argomento. Rispetto all'imposta sul capitale, che come tutte le imposte porta inevitabilmente a sottrarre risorse a persone che si preparano a spenderle utilmente..., l'inflazione ha il merito, nella sua versione idealizzata, di colpire principalmente chi non sa che cosa fare col proprio denaro..., anche se... l'inflazione non impedisce minimamente ai patrimoni importanti e ben diversificati di ottenere un buon rendimento... In definitiva, la verità è che l'inflazione è uno strumento abbastanza grossolano...
L'antipatia per l'inflazione è palpabile (pari quasi al rispetto per quel democraticone di Milton Friedman, la cui "Storia monetaria degli Stati Uniti" è bollata addirittura come "opera fondamentale". Vabbè, ognuno ha i suoi gusti), ma i motivi sono poco chiari. Forse perché il testo non mette in rilievo il principale effetto dell'inflazione, che è quello di ridurre tutti i debiti, pubblici e privati, di giocare - cioè - a favore di tutti i debitori contro tutti i creditori.
E chi sono i principali creditori, al giorno d'oggi?
Fuochino... fuoco... sì, esatto, di nuovo le banche. (Creditori sia di soggetti pubblici che di soggetti privati. Ma anche creditori fra di loro, per cui si capisce meglio quale sia uno dei motivi che hanno scatenato l'attacco tedesco ai Titoli di Stato detenuti dagli Istituti finanziari, di cui si è detto qui).
Infine, una considerazione più "marginale".
Il buon Piketty evidenzia come il meccanismo funzioni soltanto a due condizioni: (i) che l'imposta sia applicata in tutto il mondo, o quanto meno a livello continentale, pena un'inevitabile concorrenza fiscale (lui, ovviamente, avrebbe la predilezione per l'applicazione prima di tutto nell'Unione Europea, di cui invoca una sempre maggiore integrazione: non a caso l'uomo, amico del popolo così come sopra dimostrato, è un eurista convinto); (ii) che vi siano le condizioni per una banca dati globale dei patrimoni, mediante scambio automatico di tutte le informazioni bancarie detenute dai diversi Paesi.
Vi è chiaro? L'autore del saggio ritiene che, per iniziare, si potrebbe fissare una tassa patrimoniale bassissima, una specie di "imposta di registro" dei patrimoni dello 0,1%, in modo da creare, piano piano, questa banca dati. I nostri legislatori ed i nostri giornalisti, però, sono enormemente più fantasiosi di un economista francese, e soprattutto possono sempre tirare fuori dal loro cilindro dei trucchi i conigli della corruzione (che, ah signoria mia!, soprattutto in Italia ha sempre un suo mercato di gonzi) o del terrorismo (più di moda nel resto d'Europa).
Vediamo se allora anche certe notizie assumono un significato un po' differente...



Ma si sa, il problema dell'Europa è il barista che non fa lo scontrino...

martedì 8 marzo 2016

Common law e Corte di Giustizia: un altro grimaldello dell'Europa

Non è mia intenzione dimostrare quello che è già stato dimostrato, cioè la natura profondamente antidemocratica dell'Unione economica e monetaria, cioè di un sistema basato - non su tre - ma su quattro poteri, di cui uno non solo privo di qualsiasi legittimazione popolare, ma addirittura legibus solutus, come un neo-costituito Re Sole comunitario. Ormai lo dicono tutti, anche se c'è stato chi l'ha detto un po' prima degli altri (qui... notare la data, e qui, ma ultimamente - con grande chiarezza - anche qui).
Aggiungo soltanto una breve considerazione (anche questa fritta e rifritta, ma forse in questo caso repetita iuvant). Chiunque come me, dall'alto della propria improduttività, frequenta qualche bar (oppure legge un giornale nazionale, che è lo stesso), avrà sentito discorsi basati sulla mancanza di denaro dello Stato o, più precisamente, degli Enti pubblici territoriali. A Siena, per esempio, dove crolla una strada al giorno, il problema è molto sentito. La lamentela resta genericamente rivolta al destino cinico e baro (se chi protesta è piddino), oppure si accompagna all'esecrazione della casta e della corruzione (se l'oratore è grillino).
Dal che discendono due corollari. Il primo: che Stella e Rizzo hanno fatto un danno culturale incalcolabile, da cui ci riprenderemo, forse, tra decenni. Il secondo: che la volgata secondo cui i soldi possono mancare a uno Stato come mancano a una famiglia ha fatto breccia nei cuori e nelle menti della maggior parte degli italiani.
Ora, una risorsa naturale può, eventualmente, essere veramente scarsa; il più delle volte, però, è resa scarsa da chi ne ha il controllo attraverso una riduzione della sua erogazione al fine di incrementarne il prezzo. L'accesso al mare, nel nostro Paese, è molto facile, ma se lo Stato desse in concessione tutti gli arenili disponibili, fare un bagno rinfrescante d'estate per qualcuno diverrebbe molto difficile, cioè molto "caro".
Il meccanismo è ancora più lampante se si parla di manufatti di qualsiasi tipo, in particolar modo del denaro. Chi si indigna perché "non ci sono i soldi" dovrebbe allora capire che ciò accade perché il proprio Stato ha perso il controllo della moneta: non è vero che "non ci sono i soldi", semplicemente "costa troppo comprarli" (ad esempio, in termini di interessi sul debito pubblico). Pertanto, onde evitare lo sprofondamento completo di Siena e comuni limitrofi, forse riacquistare la sovranità monetaria potrebbe essere un'opzione interessante, più interessante che prendersela col maltempo, o col sindaco a seconda delle idee politiche.
Questa cosa così strana - la sovranità monetaria - è d'altronde quella che permette al Giappone di avere un debito pubblico enorme e tassi sullo stesso addirittura negativi. Ma si sa, c'è differenza fra il Giappone e la Grecia...
D'altronde, proprio l'altro giorno (vedi a volte le coincidenze...) Alberto Bagnai ricordava come, "in una crisi deflattiva, un governo possa essere certo che la moneta che stampa venga spesa nell'economia reale... solo se la spende lui [in strade, ponti, pulizia degli argini, tutte cose di cui ormai abbiamo perso anche il ricordo]. In altre parole, solo se il deficit viene monetizzato".
Ora, se al piddino o al grillino del sullodato bar tu gli fai un discorso di questo genere, quello strozza la pasta. Come?, non lo sai che monetizzare il deficit è vietato? Vi-e-ta-to! Il che, peraltro, è vero ai sensi dell'art. 123 TFUE che, tuttavia, vorrei ricordare non essere la Bibbia. Perché, in fondo, il problema è proprio questo: i Trattati sono le nuove scritture, per cui chi - come l'Italia - a stare dentro all'UEM ha tutto da perdere è visto come un peccatore, un essere moralmente abietto.

Il Grande Sacerdote di questa nuova religione è ovviamente, come si è detto all'inizio, la BCE. Ciò rende, con ogni evidenza, la UEM profondamente antidemocratica "per via economica". Quello che invece a volte è meno percepito è come l'UE sia altresì molto pericolosa anche "per via giuridica".

La questione mi si è fatta più chiara l'altro giorno, leggendo questo tweet:
La risposta mi è venuta di getto.
Cerchiamo di approfondire.
In linea di massima, si usa dire che gli ordinamenti di civil law, come quello italiano, si fondano sulla codificazione di istituti giuridici (spesso derivati dal diritto romano giustinianeo) e di norme generali ed astratte, che poi vengono applicare dal giudice al caso concreto con un'operazione ermeneutica sostanzialmente deduttiva; di contro, negli ordinamenti di common law, tra cui spiccano quello inglese e quello statunitense, il diritto si crea per via induttiva, sulla base dei "precedenti", cioè di sentenze di altri giudici cui sono state già sottoposte controversie simili. Il precedente è - o dovrebbe essere - vincolante non solo tra le parti, come in Italia, ma per tutti (è lo stare decisis).
In realtà, poi, i due sistemi sono molto più permeabili l'uno all'altro di quanto si pensi: la legislazione anglosassone, in certi ambiti, è quasi maniacale (anche se il sistema del precedente resta ancora preponderante nel diritto dei contratti e nel diritto commerciale), mentre anche negli ordinamenti latini i precedenti delle corti di cassazione hanno un peso, per non parlare di sentenze francamente innovative del diritto da parte delle corti costituzionali. Alcune differenze di fondo, però, rimangono e non sono secondarie a partire dalla radice ultima del diritto, che nei sistemi civilistici latini si rintraccia negli istituti romanistici, mentre in quelli anglosassoni è il prodotto dei mutevoli rapporti economico-sociali.
Ora, non voglio certo sostenere che l'ordinamento comunitario sia un ordinamento di common law (astenersi scienziati del diritto a tempo perso), ma semplicemente notare come la common law anglosassone sia penetrata nel nostro Paese per il tramite dell'UE, sia grazie alla libera circolazione di imprese e capitali (soprattutto i grandi conglomerati finanziari e le grandi multinazionali statunitensi tendono a "portarsi dietro" anche il loro sistema giuridico di riferimento), sia direttamente mediante disposizioni inserite in Regolamenti e Direttive.

Ecco dunque presentarsi la prima questione, che attiene allo scardinamento dogmatico del nostro sistema, soprattutto in materia di diritto commerciale, mediante l'introduzione per via UE di istituti giuridici antitetici alla nostra tradizione.

Chi è un po' in là con gli anni, si ricorda probabilmente le difficoltà della Cassazione rispetto al sale and leaseback, classificato come "contratto d'impresa socialmente tipico" - e dunque meritevole di tutela giuridica - purché lo stesso non avesse, quale motivo (illecito), soltanto quello di un aggiramento fraudolento del divieto di patto commissorio (Cass., 14 marzo 2006, n. 5438). All'epoca, infatti, al contrario di quanto accade oggi i divieti civilistici erano ancora presi sul serio.
Oppure si pensi alla definizione di "garanzia" data dall'art. 1 del D. Lgs. n. 170 del 2004, che fa una specie di pot-pourri di una serie di istituti anche significativamente diversi (pegno, deposito irregolare, mutuo - visto che a garanzia può essere ceduto anche denaro, il quale produce talvolta interessi in capo al garante -, pronti contro termine, e così via), riuniti soltanto dalla causa concreta per cui sono realizzati (cioè la causa di garanzia).
Ma non solo. I Trattati Comunitari  - sia il TUE che il TFUE - tendono spesso ad utilizzare nozioni meta-giuridiche, o - per meglio dire - nozioni a cavallo fra la disciplina giuridica e la disciplina economica, lasciandone poi al giudice comunitario (in particole, la Corte di Giustizia, o CGCE) la precisazione in termini più o meno dogmatici. È il caso, per esempio, della definizione di "impresa", oggetto di almeno tre sentenze capitali nel corso del tempo (Hoefner ed Elser, Poucet e PistreSAT Fluggesellschaft).

Entriamo così mani e piedi nel secondo più grave problema, che è poi quello del sostanziale potere legislativo demandato - ancora una volta - ad un soggetto senza alcuna legittimazione democratica. Se infatti la BCE legifera "in via indiretta", la CGCE lo fa addirittura - per così dire - "in via diretta", tramite il principio dello stare decisis (si veda, sul punto, l'art. 104, § 3, del Regolamento di procedura della Corte), temperato però dalla possibilità di cambiare lei stessa "le carte in tavola" mediante l'overruling, o il distinguish.

Dice non a caso E. Calzolaio: "si è molto discusso sulle modalità di nomina dei giudici comunitari, che avviene ad opera dei governi, senza una preventiva consultazione dei parlamenti nazionali o delle corti".

Certo, la sullodata Corte insiste sulla natura meramente dichiarativa delle proprie pronunce (CGCE, 2 febbraio 1988, Barra), ma l'indeterminatezza dei Trattati, e spesso anche del diritto derivato, rende tale impostazione niente più che una petizione di principio. In realtà, i giudici fanno e disfano a seconda fa loro più comodo.
Ritorniamo alla nozione di impresa (concetto chiave per l'applicazione delle norme antitrust e di quelle sugli aiuti di Stato): nella sentenza Hoefner, semplicemente si dice che, "la nozione di impresa abbraccia qualsiasi entità che esercita un' attività economica, a prescindere dallo status giuridico di detta entità e dalle sue modalità di finanziamento...", ma nelle pronunce Poucet e SAT si iniziano a introdurre distinguo: la sentenza Hoefner è citata, come no, ma si stabilisce che la stessa non si applica agli enti "che concorrono alla gestione di un pubblico servizio", i quali "svolgono una funzione di carattere esclusivamente sociale...  [che] si fonda infatti sul principio della solidarietà nazionale e non ha alcuno scopo di lucro", o che "si ricollegano all'esercizio di prerogative... che sono tipiche prerogative di pubblici poteri".
Non solo: la Corte ha stabilito che non sono aiuti di Stato le agevolazioni fiscali concesse dall'ordinamento italiano alle cooperative (CGCE, cause riunite da C-78/08 a C-80/08, Paint Graphos), sulla base del principio che le stesse, per il loro fine mutualistico, non sono paragonabili alle imprese aventi fini di lucro. Il che, però, d'altra parte non impedisce alla medesima CGCE di qualificare come imprese i liberi professionisti e le loro associazioni (CGCE, C-1/12, OTOS), senza curarsi del mancato rispetto dell'art. 2082 del Codice e di un'altra manciata di disposizioni civilistiche che, nel nostro Paese, funzionano come minimo da settant'anni.
Il grimaldello di questi... diciamo... revirement sono - come detto - proprio due tipici istituti di common law: l'overruling (il giudice che ha pronunciato la sentenza è libero di non seguirla in un caso successivo: è il caso di CGCE, C-10/89, Hag II in tema di marchi) e il distinguish (il giudice considera due casi prima facie uguali come in realtà differenti: v. p.e. CGCE, C-409/95, Marschall in tema di pari opportunità).
Senonché - come ben mostrato da M.A. Eisenberg e dalla sua "teoria generativa" del common law -  questo sistema introduce un numero indefinito di passaggi e combinazioni che, mentre rendono controllabile e ragionevolmente prevedibile l'attività del giudice, non danno nessuna anticipazione sull'esito della controversia. Con buona pace anche della certezza del diritto: infatti la giurisprudenza, in questo contesto, ha un ruolo eminentemente normativo, cosa che comporta, necessariamente - come notato dal Giudice Cardozo - la necessità di riconciliarsi con l'idea stessa di "incertezza" in quanto inevitabile.

In questo quadro, i motivi di tensione con le giurisdizioni nazionali si moltiplicano.
Tuttavia, mentre la Corte Costituzionale italiana - al di là delle petizioni di principio - si è dimostrata vieppiù accondiscendente con gli organi europei, di contro la Corte di Karlsruhe (seppur partendo da presupposti dottrinali piuttosto simili: la sentenza Solange non è diffiorme dalla sentenza Granital italiana) è sempre più spesso protagonista di scontri più o meno latenti con la Corte di Lussemburgo.
Da ultimo, si è presentato il caso di una sentenza di dicembre, relativa al rispetto del diritto di difesa nel processo penale, in cui la Corte costituzionale tedesca - in palese contrasto con la sentenza Melloni della CGCE - ha ribadito l'intangibilità dei diritti umani protetti dalla propria Carta fondamentale, indipendentemente dal tenore delle norme UE e dalla interpretazione che della stessa danno gli organi giurisdizionali europei:

Ma non è un caso isolato.
Allargando la visuale al diritto europeo in generale (al di là delle pronunce della CGCE), si può a esempio ricordare come la partecipazione al MES da parte degli Stati aderenti sia sostanzialmente perpetua, salvo che per la Germania, che ha sottoposto il meccanismo a verifica costituzionale. La Corte, con sentenza del 12 settembre del 2012, ha invece limitato a 190 miliardi di Euro il contributo tedesco ed ha preteso che qualsiasi eventuale aumento della somma sia sottoposto al previo parere positivo del Parlamento di Berlino.
Non solo, entro l'estate dovrebbe arrivare il verdetto sull'OMT, che - guarda un po' - la Corte di Giustizia ha già dichiarato legale ai sensi del diritto dell'Unione. Un'eventuale presa di posizione negativa da parte della Corte costituzionale tedesca avrebbe, evidentemente, ampie implicazioni in ordine alla eventuale supremazia del diritto comunitario sul diritto degli Stati membri dell'UE.