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domenica 20 marzo 2016

L'ipostatizzazione dell'Euro (un paio di domande a Salvati)

Ho letto l'articolo di Michele Salvati sul corriere on line di giovedì ed ho deciso di scrivere le brevi considerazioni che seguono. Le ho inviate al Corriere, sperando in una risposta che non credo arriverà. Dunque le ripubblico anche qui, con qualche aggiunta di contorno (tra parentesi). Anche se, con poche righe, c'è già chi ha risposto meglio di me.

Il messaggio dell'articolo è molto chiaro: in un contesto di deflazione globale (causato principalmente dal rallentamento della Cina e dal calo del prezzo del petrolio), la crescita dei Paesi occidentali dovrebbe passare per un rinnovato stimolo della domanda interna; tale opzione è pero resa difficile negli USA dalla sperequata distribuzione dei redditi, impossibile nella UE per la politica mercantilista dei Paesi del Nord e della Germania in particolare. Pertanto, le uniche politiche contro la deflazione sono quelle, di natura monetaria, portate avanti dalla BCE, con risultati molto limitati; se fallissero, resterebbe soltanto la mossa disperata della helicopter money (per cui v. sotto!, N.d.R.).
In questo quadro, il governo italiano persegue tre obiettivi: la permanenza dell'Italia nell'Eurozona, la richiesta all'UE di maggiori margini di manovra in tema di bilancio pubblico, una "accelerazione delle politiche strutturali per rendere il nostro Paese più efficiente nel comparto pubblico e più competitivo in quello privato".
Salvati sposa le linee di azione, ma ritiene che, rispetto alla terza, non si faccia abbastanza. A suo avviso,  per "mettere al riparo il Paese dal pericolo di attacchi speculativi cui l'espone il suo enorme debito pubblico" sarebbe necessaria una sostanziosa patrimoniale una tantum. Infatti, "ai detentori dei titoli del nostro debito non interessa che gli italiani siano ricchi, vogliono essere ragionevolmente sicuri che quei titoli verranno ripagati". Per l'efficientamento del privato - posto che la produttività "stagna da venti anni", le esportazioni "tengono a malapena il passo delle importazioni" e la disoccupazione è molto elevata - l'unica ricetta applicabile (non potendo svalutare la moneta, dato che abbiamo l'Euro) è quella di una riduzione dei salari nominali.

Salvati è un economista e un giurista. Ma queste cose le pubblica sul Corriere al fine, immagino, di renderle fruibili al cittadino medio, come me. Dunque, spetta al cittadino medio chiedere spiegazioni di quello che ha scritto... "a rime baciate", per usare l'espressione di un altro economista. I professionisti risponderanno se vogliono, e in modo ben diverso da me.
Prendo per buona la ricostruzione delle cause della deflazione (anche se, per dire, il prezzo del petrolio è stato anche più basso dell'attuale per tutta la seconda metà degli anni Novanta ed agli stessi livelli di oggi almeno fino al 2005) e delle supposte intenzioni del nostro governo (io il nostro premier proprio non lo capisco, dunque non mi azzardo a proporre opzioni diverse).
Voglio invece concentrarmi su un punto diverso, cioè la tendenza di un certo giornalismo a descrivere determinate dinamiche non come il prodotto di scelte (legislative ed economiche) di per sé transeunti (in altri termini: modificabili), ma come dati di fatto, dunque immutabili. Vincoli esterni, si legge spesso. Dice Salvati: siccome il nostro debito pubblico è molto elevato (primo dato di fatto), e siccome questo debito deve essere acquistato sui mercati (secondo dato di fatto), saremmo obbligati a riaffermare la solvibilità dell'Italia attraverso - diciamo - una "patrimoniale dimostrativa" (conseguenza necessaria).
Ora, il secondo "dato di fatto" non è una catastrofe naturale o un ineluttabile fenomeno fisico, è semplicemente una scelta politica sedimentatasi negli ultimi trent'anni, prima col "divorzio" fra Tesoro e Banca d'Italia (che ha cancellato l'obbligo della Banca centrale a garantire il collocamento integrale in asta dei Titoli di Stato), quindi con i Trattati europei, che hanno espressamente vietato alla BCE "qualsiasi... forma di facilitazione creditizia... alle amministrazioni statali..., così come l'acquisto diretto presso di essi di titoli di debito..." (art. 123 del TFUE).
Prima del 1981, la frase di Salvati sarebbe suonata in modo molto diverso: siccome il nostro debito, per la parte non acquistata in asta, è garantito dalla Banca d'Italia, la solvibilità dell'Italia è ipso facto assicurata. Noto di passaggio che questa proposizione si tradurrebbe in altre lingue non europee, per esempio in giapponese, con infinità maggior facilità di quella originale.
Date certe premesse, si impongono necessariamente certe conclusioni (almeno così dicono in prima liceo), il punto è che l'Autore quelle premesse non solo non le spiega, ma neppure le enuncia.
Se la rinuncia, da parte dell'Italia, alla propria sovranità monetaria può comportare per i cittadini, fra le altre cose, sacrifici economici significativi (come una patrimoniale), dovrebbero essere chiari i vantaggi che riequilibrino - o, meglio, superino - gli svantaggi di questa rinuncia. Salvati non dice nulla.
Di solito, nei talk-show (sì, perché io - come, credo, ogni persona che non è un economista professionale - non conosco alcun saggio, o articolo, che spieghi con precisione l'utilità di far parte dell'UEM), nei talk-show, dicevo, le motivazioni sono tre: fuori dall'Euro c'è l'inflazione, fuori dall'Euro la rata del mutuo andrebbe alle stelle, fuori dall'Euro saremmo commercialmente schiacciati. Ora: aver paura dell'inflazione nel bel mezzo di una deflazione non sembra proprio un ragionamento coerente; le rate del mutuo normalmente sono agganciate all'Euribor, cioè a un tasso interbancario a livello europeo che dunque reagisce solo molto parzialmente alle vicende italiane; se la Svezia o l'Islanda si muovono autonomamente sui mercati internazionali con discreti risultati, probabilmente lo potrebbe fare anche il nostro Paese.
Dunque ci deve essere dell'altro. Ma cosa? Non sarebbe il caso di informare meglio i cittadini come me? Mica per altro, ma per un minimo di rispetto della democrazia.

(Secondo noti disfattisti la domanda di cui sopra apparirebbe leggermente retorica...
Ecco).

Secondo, la questione della competitività del settore privato.
Non sono sicuro di aver capito il pensiero dell'Autore, che mi pare voglia ridurre la disoccupazione mediante la deflazione salariale.

(Ah... a proposito... la situazione ad oggi è questa.
Andiamo avanti...).

Comunque, anche in questo caso, Salvati parte da un postulato che è tale soltanto da vent'anni: non possiamo svalutare la moneta, quindi dobbiamo svalutare il lavoro. Quello che invece non spiega è cosa vieti di rigirare la frase: siccome non vogliamo svalutare il lavoro - anzi: siccome è contrario a Costituzione svalutare il lavoro - ripristiniamo le condizioni per svalutare la moneta.
Perché no? Cosa può succedere che non sia già successo? Anche qui, di solito si sentono una serie di argomentazioni che, a dirla tutta, vere argomentazioni non sono (il peggio è qui).
Il bank run? Eppure non mi sembra che la Grecia sia uscita dall'Euro (tralasciando il fatto che certe fosche descrizioni si basano sull'assunto che non sia possibile istituire nuovamente un controllo sui capitali: di nuovo, una costatazione di fatto trasformata in un dato di fatto). L'inflazione? Magari! Anche se certe previsione paiono sinceramente un po' catastrofiche. La perdita di potere di acquisto delle merci estere? O mio Dio, se usciamo dall'Euro saremo costretti a compare un po' più italiano! L'Italia che ripaga i creditori stranieri con moneta svalutata. Più che un problema per noi, forse questo è un grosso problema per gli altri.
Dunque, anche qui, ci deve essere dell'altro.
Lo ripeto: secondo me nell'articolo di Salvati manca proprio questo. Il "resto". Il mio stipendio è stato ridotto del 40% in due anni dall'azienda dove lavoro. Penso di avere diritto a conoscerne i motivi. Di più: penso di avere il diritto a capire quali sono i vantaggi per la collettività, tali da rendere giusto un sacrificio così alto per me e per la mia famiglia.

Mi piacerebbe avere una risposta. In mancanza, concluderò quello che temo. Che chi ci doveva rappresentare, in realtà ci ha traditi.

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