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mercoledì 3 giugno 2020

Le Fondazioni di origine bancaria: un dibattito surreale

Fondazione Cariplo
I Signori delle città, di Alessandro di Nunzio e Diego Gandolfo, è un libro profondamente sbagliato. Dispiace, perché il punto di partenza è assolutamente corretto: i patrimoni delle fondazioni di origine bancaria (f.o.b.) sono patrimoni pubblici e, pertanto, non possono essere amministrati con logiche strettamente private da singoli individui o da conventicole che si rinnovano continuamente per cooptazione. Purtroppo, se si può convenire con la diagnosi (al netto di un completo fraintendimento dei problemi del sistema bancario italiano, di alcuni non secondari cedimenti al grillismo degli stipendi d'oro, di qualche passaggio a oggettivo rischio querela), non si può assolutamente concordare con la cura proposta. Pensare di risolvere il problema della gestione delle f.o.b. con misure burocratiche, ad esempio sottoponendole al controllo dell'Anac è, prima che assolutamente inefficiente, soprattutto inutile, perché si limita ad assicurare una generica parità di trattamento nella gestione degli appalti o, in taluni casi (ma non nella maggior parte), della scelta dei beneficiari delle erogazioni. Ci sarebbe bisogno di ben altro.
Di cosa, dirò però alla fine di questo breve intervento.
Compagnia di San Paolo
È da un paio di mesi, infatti, che si sta sviluppando sulle f.o.b. un dibattito interessante, ancorché a tratti surreale. Tito Boeri e Luigi Guiso, in un articolo sulla Voce.info, hanno proposto alle fondazioni di impegnare la totalità del loro patrimonio "a garanzia per contrarre direttamente prestiti sul mercato... oppure come complemento alle garanzie offerte dallo stato per la concessione dei prestiti bancari", così da "finanziare realisticamente fino a 120 miliardi di investimenti per contribuire al salvataggio del tessuto economico, sociale e sanitario del paese". Le fondazioni bancarie, in questo modo, ovvierebbero al tradimento della loro missione, poiché - nate per svolgere attività di utilità sociale - hanno in realtà svolto ruoli centrali nella governance delle banche. Chi non voglia accedere alla tesi dell'incomprensione, da parte di professori di chiara fama, della differenza fra provvista e scopi erogativi, potrebbe forse più convenientemente concludere che il senso profondo del ragionamento degli autori dell'articoletto stia nell'ovvia circostanza che, laddove le f.o.b. fallissero, certamente cesserebbero di avere interessenze nelle banche. Uno dei loro tanti corifei, spesso distintosi in passato per solerzia nella distruzione della coscienza democratica del popolo italiano, su Repubblica, si è spinto oltre, parlando di una "natura pubblicistica è rafforzata dai meccanismi di designazione dei vertici, in larga misura prerogativa degli enti locali".
A Boeri & co. (cui non è chiaro che la costituzione di un fondo come quello proposto cozzerebbe contro le principali norme della Legge Ciampi: art. 3, c. 2, e art. 5, c. 1, D. Lgs. n. 153 del 1999) ha risposto "a rime baciate" il molto presidente e poco emerito Guzzetti prima lo scorso 18 maggio in una lunga intervista, quindi in un ulteriore intervento ancora su Repubblica: "il risultato di una tale operazione è distruggere i patrimonio delle f.o.b.", di cui "verrà meno la ragione di esistere". Quanto alla tesi "pubblicistica" di Rizzo, ulteriore levata di scudi, con tanto di richiamo alla sciagurata sentenza n. 301 della Corte Costituzionale ("persone giuridiche private, dotate di piena autonomia statutaria e gestionale"), e fine dei giochi.
Fondazione Mps
Ecco, a chi scrive il dibattito fra Rizzo e Guzzetti pare il frutto di speculari (e forse interessati) fraintendimenti. Dire che "il patrimonio [delle f.o.b.] non appartiene alla collettività, intendendo che si tratti di un patrimonio pubblico, ma ai cittadini... dei territori di elezioni" delle diverse fondazioni non solo presuppone una visione anacronistica dello Stato come soggetto terzo rispetto ai cittadini (e non come ordinamento giuridico all'interno del quale quei cittadini operano, per sé considerati oppure ordinati in altri ordinamenti, variamente collegati a quello statuale), ma soprattutto denota un arroccamento nei particolarismi contrario non solo allo spirito, ma anche alla norma (art. 2, art. 5) della nostra Carta Costituzionale. Ugualmente, dire che gli organi delle f.o.b. sono nominati dalle amministrazioni locali è segno di una certa ignoranza, tanto più sorprendente in chi ha costruito le sue fortune sull'allontanamento della politica da qualsiasi ambito della società.
Torniamo allora al punto di partenza.
La cura per le f.o.b. non è un'altra circolare Anac che stabilisca qualche soglia per gli appalti gestiti dalle fondazioni, come se davvero il problema della loro gestione sia qualche favore spartitorio, la cura vera sta proprio in quello che Rizzo pensa che già esista e che invece manca, cioè l'inserimento delle fondazioni di origine bancaria entro il circuito democratico attraverso un collegamento standardizzato fra organi di amministrazione degli enti e luoghi di formazione dell'indirizzo politico (in senso molto ampio). Il punto non è l'appalto per le pulizie della sede o per la ristrutturazione del palazzo storico, né può essere la loro devoluzione una tantum a favore del sistema imprenditoriale; il punto è un controllo popolare degli indirizzi strategici di lungo periodo. Né le sentenze scritte dal prof. Zagrebelsky - in quel periodo di antiberlusconismo militante - paiono insuperabili rispetto a una legge ben scritta, che riveda completamente il volto di questo enti così spesso deturpati. Se poi fosse necessario abolire l'art. 118, c. 4, Cost., nessuno se ne darebbe pena.