Aggiungo soltanto una breve considerazione (anche questa fritta e rifritta, ma forse in questo caso repetita iuvant). Chiunque come me, dall'alto della propria improduttività, frequenta qualche bar (oppure legge un giornale nazionale, che è lo stesso), avrà sentito discorsi basati sulla mancanza di denaro dello Stato o, più precisamente, degli Enti pubblici territoriali. A Siena, per esempio, dove crolla una strada al giorno, il problema è molto sentito. La lamentela resta genericamente rivolta al destino cinico e baro (se chi protesta è piddino), oppure si accompagna all'esecrazione della casta e della corruzione (se l'oratore è grillino).
Dal che discendono due corollari. Il primo: che Stella e Rizzo hanno fatto un danno culturale incalcolabile, da cui ci riprenderemo, forse, tra decenni. Il secondo: che la volgata secondo cui i soldi possono mancare a uno Stato come mancano a una famiglia ha fatto breccia nei cuori e nelle menti della maggior parte degli italiani.
Ora, una risorsa naturale può, eventualmente, essere veramente scarsa; il più delle volte, però, è resa scarsa da chi ne ha il controllo attraverso una riduzione della sua erogazione al fine di incrementarne il prezzo. L'accesso al mare, nel nostro Paese, è molto facile, ma se lo Stato desse in concessione tutti gli arenili disponibili, fare un bagno rinfrescante d'estate per qualcuno diverrebbe molto difficile, cioè molto "caro".
Il meccanismo è ancora più lampante se si parla di manufatti di qualsiasi tipo, in particolar modo del denaro. Chi si indigna perché "non ci sono i soldi" dovrebbe allora capire che ciò accade perché il proprio Stato ha perso il controllo della moneta: non è vero che "non ci sono i soldi", semplicemente "costa troppo comprarli" (ad esempio, in termini di interessi sul debito pubblico). Pertanto, onde evitare lo sprofondamento completo di Siena e comuni limitrofi, forse riacquistare la sovranità monetaria potrebbe essere un'opzione interessante, più interessante che prendersela col maltempo, o col sindaco a seconda delle idee politiche.
Questa cosa così strana - la sovranità monetaria - è d'altronde quella che permette al Giappone di avere un debito pubblico enorme e tassi sullo stesso addirittura negativi. Ma si sa, c'è differenza fra il Giappone e la Grecia...
D'altronde, proprio l'altro giorno (vedi a volte le coincidenze...) Alberto Bagnai ricordava come, "in una crisi deflattiva, un governo possa essere certo che la moneta che stampa venga spesa nell'economia reale... solo se la spende lui [in strade, ponti, pulizia degli argini, tutte cose di cui ormai abbiamo perso anche il ricordo]. In altre parole, solo se il deficit viene monetizzato".
Ora, se al piddino o al grillino del sullodato bar tu gli fai un discorso di questo genere, quello strozza la pasta. Come?, non lo sai che monetizzare il deficit è vietato? Vi-e-ta-to! Il che, peraltro, è vero ai sensi dell'art. 123 TFUE che, tuttavia, vorrei ricordare non essere la Bibbia. Perché, in fondo, il problema è proprio questo: i Trattati sono le nuove scritture, per cui chi - come l'Italia - a stare dentro all'UEM ha tutto da perdere è visto come un peccatore, un essere moralmente abietto.
Il Grande Sacerdote di questa nuova religione è ovviamente, come si è detto all'inizio, la BCE. Ciò rende, con ogni evidenza, la UEM profondamente antidemocratica "per via economica". Quello che invece a volte è meno percepito è come l'UE sia altresì molto pericolosa anche "per via giuridica".
La questione mi si è fatta più chiara l'altro giorno, leggendo questo tweet:
La risposta mi è venuta di getto.Naturalmente, come tutte le aberrazioni giuridiche, il #DecretoMutui è farina del sacco #UE https://t.co/I5F8GJR3fn— Vittorio Banti (@VittorioBanti) 3 marzo 2016
Cerchiamo di approfondire.@VittorioBanti L'Euro sta distruggendo democrazia, common law UE il diritto romano (2 facce, stessa medaglia).— Luca Fantuzzi (@Luca_Fantuzzi) 3 marzo 2016
In linea di massima, si usa dire che gli ordinamenti di civil law, come quello italiano, si fondano sulla codificazione di istituti giuridici (spesso derivati dal diritto romano giustinianeo) e di norme generali ed astratte, che poi vengono applicare dal giudice al caso concreto con un'operazione ermeneutica sostanzialmente deduttiva; di contro, negli ordinamenti di common law, tra cui spiccano quello inglese e quello statunitense, il diritto si crea per via induttiva, sulla base dei "precedenti", cioè di sentenze di altri giudici cui sono state già sottoposte controversie simili. Il precedente è - o dovrebbe essere - vincolante non solo tra le parti, come in Italia, ma per tutti (è lo stare decisis).
In realtà, poi, i due sistemi sono molto più permeabili l'uno all'altro di quanto si pensi: la legislazione anglosassone, in certi ambiti, è quasi maniacale (anche se il sistema del precedente resta ancora preponderante nel diritto dei contratti e nel diritto commerciale), mentre anche negli ordinamenti latini i precedenti delle corti di cassazione hanno un peso, per non parlare di sentenze francamente innovative del diritto da parte delle corti costituzionali. Alcune differenze di fondo, però, rimangono e non sono secondarie a partire dalla radice ultima del diritto, che nei sistemi civilistici latini si rintraccia negli istituti romanistici, mentre in quelli anglosassoni è il prodotto dei mutevoli rapporti economico-sociali.
Ora, non voglio certo sostenere che l'ordinamento comunitario sia un ordinamento di common law (astenersi scienziati del diritto a tempo perso), ma semplicemente notare come la common law anglosassone sia penetrata nel nostro Paese per il tramite dell'UE, sia grazie alla libera circolazione di imprese e capitali (soprattutto i grandi conglomerati finanziari e le grandi multinazionali statunitensi tendono a "portarsi dietro" anche il loro sistema giuridico di riferimento), sia direttamente mediante disposizioni inserite in Regolamenti e Direttive.
Ecco dunque presentarsi la prima questione, che attiene allo scardinamento dogmatico del nostro sistema, soprattutto in materia di diritto commerciale, mediante l'introduzione per via UE di istituti giuridici antitetici alla nostra tradizione.
Chi è un po' in là con gli anni, si ricorda probabilmente le difficoltà della Cassazione rispetto al sale and leaseback, classificato come "contratto d'impresa socialmente tipico" - e dunque meritevole di tutela giuridica - purché lo stesso non avesse, quale motivo (illecito), soltanto quello di un aggiramento fraudolento del divieto di patto commissorio (Cass., 14 marzo 2006, n. 5438). All'epoca, infatti, al contrario di quanto accade oggi i divieti civilistici erano ancora presi sul serio.
Oppure si pensi alla definizione di "garanzia" data dall'art. 1 del D. Lgs. n. 170 del 2004, che fa una specie di pot-pourri di una serie di istituti anche significativamente diversi (pegno, deposito irregolare, mutuo - visto che a garanzia può essere ceduto anche denaro, il quale produce talvolta interessi in capo al garante -, pronti contro termine, e così via), riuniti soltanto dalla causa concreta per cui sono realizzati (cioè la causa di garanzia).
Ma non solo. I Trattati Comunitari - sia il TUE che il TFUE - tendono spesso ad utilizzare nozioni meta-giuridiche, o - per meglio dire - nozioni a cavallo fra la disciplina giuridica e la disciplina economica, lasciandone poi al giudice comunitario (in particole, la Corte di Giustizia, o CGCE) la precisazione in termini più o meno dogmatici. È il caso, per esempio, della definizione di "impresa", oggetto di almeno tre sentenze capitali nel corso del tempo (Hoefner ed Elser, Poucet e Pistre, SAT Fluggesellschaft).
Entriamo così mani e piedi nel secondo più grave problema, che è poi quello del sostanziale potere legislativo demandato - ancora una volta - ad un soggetto senza alcuna legittimazione democratica. Se infatti la BCE legifera "in via indiretta", la CGCE lo fa addirittura - per così dire - "in via diretta", tramite il principio dello stare decisis (si veda, sul punto, l'art. 104, § 3, del Regolamento di procedura della Corte), temperato però dalla possibilità di cambiare lei stessa "le carte in tavola" mediante l'overruling, o il distinguish.
Dice non a caso E. Calzolaio: "si è molto discusso sulle modalità di nomina dei giudici comunitari, che avviene ad opera dei governi, senza una preventiva consultazione dei parlamenti nazionali o delle corti".
Certo, la sullodata Corte insiste sulla natura meramente dichiarativa delle proprie pronunce (CGCE, 2 febbraio 1988, Barra), ma l'indeterminatezza dei Trattati, e spesso anche del diritto derivato, rende tale impostazione niente più che una petizione di principio. In realtà, i giudici fanno e disfano a seconda fa loro più comodo.
Ritorniamo alla nozione di impresa (concetto chiave per l'applicazione delle norme antitrust e di quelle sugli aiuti di Stato): nella sentenza Hoefner, semplicemente si dice che, "la nozione di impresa abbraccia qualsiasi entità che esercita un' attività economica, a prescindere dallo status giuridico di detta entità e dalle sue modalità di finanziamento...", ma nelle pronunce Poucet e SAT si iniziano a introdurre distinguo: la sentenza Hoefner è citata, come no, ma si stabilisce che la stessa non si applica agli enti "che concorrono alla gestione di un pubblico servizio", i quali "svolgono una funzione di carattere esclusivamente sociale... [che] si fonda infatti sul principio della solidarietà nazionale e non ha alcuno scopo di lucro", o che "si ricollegano all'esercizio di prerogative... che sono tipiche prerogative di pubblici poteri".
Non solo: la Corte ha stabilito che non sono aiuti di Stato le agevolazioni fiscali concesse dall'ordinamento italiano alle cooperative (CGCE, cause riunite da C-78/08 a C-80/08, Paint Graphos), sulla base del principio che le stesse, per il loro fine mutualistico, non sono paragonabili alle imprese aventi fini di lucro. Il che, però, d'altra parte non impedisce alla medesima CGCE di qualificare come imprese i liberi professionisti e le loro associazioni (CGCE, C-1/12, OTOS), senza curarsi del mancato rispetto dell'art. 2082 del Codice e di un'altra manciata di disposizioni civilistiche che, nel nostro Paese, funzionano come minimo da settant'anni.
Il grimaldello di questi... diciamo... revirement sono - come detto - proprio due tipici istituti di common law: l'overruling (il giudice che ha pronunciato la sentenza è libero di non seguirla in un caso successivo: è il caso di CGCE, C-10/89, Hag II in tema di marchi) e il distinguish (il giudice considera due casi prima facie uguali come in realtà differenti: v. p.e. CGCE, C-409/95, Marschall in tema di pari opportunità).
Senonché - come ben mostrato da M.A. Eisenberg e dalla sua "teoria generativa" del common law - questo sistema introduce un numero indefinito di passaggi e combinazioni che, mentre rendono controllabile e ragionevolmente prevedibile l'attività del giudice, non danno nessuna anticipazione sull'esito della controversia. Con buona pace anche della certezza del diritto: infatti la giurisprudenza, in questo contesto, ha un ruolo eminentemente normativo, cosa che comporta, necessariamente - come notato dal Giudice Cardozo - la necessità di riconciliarsi con l'idea stessa di "incertezza" in quanto inevitabile.
In questo quadro, i motivi di tensione con le giurisdizioni nazionali si moltiplicano.
Tuttavia, mentre la Corte Costituzionale italiana - al di là delle petizioni di principio - si è dimostrata vieppiù accondiscendente con gli organi europei, di contro la Corte di Karlsruhe (seppur partendo da presupposti dottrinali piuttosto simili: la sentenza Solange non è diffiorme dalla sentenza Granital italiana) è sempre più spesso protagonista di scontri più o meno latenti con la Corte di Lussemburgo.
Da ultimo, si è presentato il caso di una sentenza di dicembre, relativa al rispetto del diritto di difesa nel processo penale, in cui la Corte costituzionale tedesca - in palese contrasto con la sentenza Melloni della CGCE - ha ribadito l'intangibilità dei diritti umani protetti dalla propria Carta fondamentale, indipendentemente dal tenore delle norme UE e dalla interpretazione che della stessa danno gli organi giurisdizionali europei:
If this opinion is followed, #CJEU may clash with Karlsruhe (BVerfG)...https://t.co/OLDkbk5J6V https://t.co/BuhR0N1gw3— Jörg Polakiewicz (@jowicz) 4 marzo 2016
Ma non è un caso isolato.
Allargando la visuale al diritto europeo in generale (al di là delle pronunce della CGCE), si può a esempio ricordare come la partecipazione al MES da parte degli Stati aderenti sia sostanzialmente perpetua, salvo che per la Germania, che ha sottoposto il meccanismo a verifica costituzionale. La Corte, con sentenza del 12 settembre del 2012, ha invece limitato a 190 miliardi di Euro il contributo tedesco ed ha preteso che qualsiasi eventuale aumento della somma sia sottoposto al previo parere positivo del Parlamento di Berlino.
Non solo, entro l'estate dovrebbe arrivare il verdetto sull'OMT, che - guarda un po' - la Corte di Giustizia ha già dichiarato legale ai sensi del diritto dell'Unione. Un'eventuale presa di posizione negativa da parte della Corte costituzionale tedesca avrebbe, evidentemente, ampie implicazioni in ordine alla eventuale supremazia del diritto comunitario sul diritto degli Stati membri dell'UE.
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