Cerca

Pagine

sabato 30 marzo 2019

Note a margine del Convegno di Verona

Il Convegno delle Famiglie, che si sta svolgendo a Verona, ha riportato alla ribalta una polemica che, sotto traccia, cova già da alcuni anni e che attiene al concetto di "famiglia naturale", o "tradizionale". Invocata soprattutto da credenti cattolici, tocca la cattiva coscienza di quei laici che cercano in ogni modo di rimuovere, o riscrivere, l'art. 29 della Costituzione. Ora, se è indubbio che la Costituzione utilizzi la locuzione al fine di sottolineare che la famiglia, composta dai coniugi padre e madre (indipendentemente dalle ricostruzioni bislacche della Cirinnà) e dai loro figli, è formazione sociale preesistente al suo riconoscimento giuridico, cui pure la Repubblica si impegna, e pertanto non può essere cancellata o stravolta dal legislatore ad libitum, a mio avviso parlare di "famiglia naturale" può essere forviante.

Naturale, in effetti, non significa ferino. Da questo punto di vista, la famiglia composta da padre, madre e figli non ha nulla di naturalein natura, normalmente le femmine (che possono avere solo una cucciolata alla volta) dopo il parto continuano ad accudire i figli, mentre i maschi (il cui scopo è quello di ingravidare il maggior numero di femmine possibile) se ne disinteressano del tutto. In altri termini, salve alcune eccezioni che, come al solito, confermano la regola, in natura esiste la madre, non il padre. Dunque, non esiste la famiglia.
Il padre - con tutto quello che comporta: scelta di una compagna per la vita, convivenza stabile, accudimento ed educazione della prole - è tipico del genere umano, è un'increspatura nel mare della storia, per dirla con l'autore di un bellissimo libro sulla questione. Non si nasce padri, lo si diventa, scegliendo continuamente il ritorno a casa, adottando continuamente il proprio figlio.
La cifra del padre è la nostalgia, immortalata per sempre in due delle più belle terzine di tutta la Divina Commedia: "era già l'ora che volge il disio \ ai navicanti e 'ntenerisce il core \ lo dì c'han detto ai dolci amici addio; \ e che lo novo peregrin d'amore \ punge, se ode squilla di lontano \ che paia il giorno pianger che si more".
Nella famiglia, la madre è giustaamorevole, mentre il padre racchiude in sé un duplice ruolo: deve sì essere giusto, ma anche fortegarantisce la pace familiare (all'interno), tramanda i valori sociali (all'esterno). In questa dinamica familiare si crea quel "principio verticale" capace di costituire un modello per la crescita, da affiancare al "principio orizzontale" (l'uguaglianza di tutti) fondante i moderni Stati di diritto ma incapace però di innescare processi basati sulla responsabilità.
Altrimenti, "l'effetto è quello di retrocedere sempre più verso la dimensione del branco, verso l’irresponsabilità. A essere messa in discussione è la possibilità stessa della civiltà" (qui).
La famiglia va dunque tutelata non in quanto "naturale" (poiché, come detto, è naturale nel senso che preesiste alla legge, ma non lo è laddove si intenda che la stessa è propria dello "stato di natura"), ma in quanto propriamente "umana" (cioè base stessa della civiltà).

Senonché, come ben ha scritto, un paio di anni fa, Diego Fusaro, "se la famiglia comporta, per sua natura, la stabilità affettiva e sentimentale, biologica e lavorativa..., la sua distruzione risulta pienamente coerente con il processo oggi in atto di precarizzazione delle esistenze condotto spietatamente dall'ordine neoliberistico".
Non è vero che il precariato preclude la costruzione della famiglia; è piuttosto vero il reciproco: è l'individuo senza radici, senza identità e senza storia che rappresenta non solo il perfetto lavoratore precario, senza progetti a lungo termine, senza necessità di una sede fissa di lavoro, ma anche come il perfetto consumatore, che utilizza quel poco che guadagna per acquistare beni di consumo, senza preoccuparsi di risparmiare per i propri cari, o di costruire qualcosa.
D'altro canto, il "padre" che non ha più un ruolo sociale, che non sfama la famiglia non è riconosciuto come padre. Di conseguenza, anche la famiglia non si riconosce più come tale. Fusaro, citando Lacan, parla di "evaporazione del padre". Per dirla in altri termini: l'attacco neoliberista al welfare state passa anche dall'attacco a quel particolare tipo di welfare che è rappresentato dalla famiglia, intesa come luogo comunitario in cui vige l'etica della solidarietà.

Ovviamente, la dissoluzione della famiglia (per i motivi di cui sopra) passa anche per la retorica gender, per le stravaganze della c.d. multigenitorialità, per l'azzeramento dei diritti del bambino rispetto al capriccio dei genitori, per la propaganda a favore dell'omosessualità. Temi che si intrecciano anche con il malthusianesimo delle classi dirigenti liberal, che della famiglia tradizionale combattono anche, se non soprattutto, la naturale fecondità. Non a caso uno dei principali temi di scontro a Verona riguarda la legislazione in materia di aborto.
Ecco allora che si palesa il secondo acerrimo nemico della famiglia. Se prima abbiamo parlato dell'interesse economico al consumo e al lavoro precario, ora è il nichilismo che viene in primo piano. La società moderna ha nuovamente mangiato il frutto dell'albero del bene e del male e si è nuovamente sostituita a Dio, rendendo giusto tutto ciò che è possibile.
Ciò comporta la rimozione di qualsiasi norma morale. Nel racconto del Genesi, Adamo ed Eva - il genere umano - sono infatti posti di fronte alla scelta se accettare di dipendere da qualche cosa di più grande rispetto al loro ego nella determinazione del bene e del male oppure no; se costruire l'esistenza e il destino con questo qualche cosa (Dio, per lo scrittore sacro) oppure senza; se, insomma, essere gli arbitri assoluti di se stessi, di quello che fanno e di come lo fanno o se avere dei limiti esterni.
E la rimozione di ogni norma morale comporta il venir meno di qualsiasi limitazione all'agire. Quando Satana tenta Gesù nel deserto, tocca le corde più profonde dell'animo umano: la voglia di possesso ("se tu sei Figlio di Dio, di' a questa pietra che diventi pane"), la sete di potere ("ti darò tutta questa potenza e la gloria di questi regni") e - infine e soprattutto - il sogno dell'uomo di dominare la natura ("se tu sei Figlio di Dio, buttati giù; sta scritto infatti: ai suoi angeli darà ordine per te, perché essi ti custodiscano"). Ma se, all'epoca di Gesù questo sogno prendeva sostanza nella magia, esso prende oggi le sembianze di scienza e tecnica.

E qui il discorso parrebbe spostarsi dal piano sociale a quello medico. Dalla polemica sulla famiglia alla polemica sui trattamenti obbligatori, a partire da quelli vaccinali. Senonché, si scopre facilmente che l'attentato alla integrità fisica dei bambini è un modo per rimarcare la preminenza della potestà dello Stato su quella dei genitori.

Il cerchio si chiude. E dà un terribile senso di costrizione.

martedì 12 marzo 2019

Vizi privati, pubbliche virtù, ovvero: il tradimento di una classe politica

Stamattina Fubini scopre, con accenti di forte patetismo, che la Germania, in materia bancaria, fa il proprio interesse nazionale e cita sia il caso della Nordbank (banca regionale pubblica controllata dai due Länder della Bassa Sassonia e della Sassonia Anhalt, travolta dalla crisi del credito marittimo, recentemente ricapitalizzata con denaro pubblico nonostante un'offerta di alcuni fondi privati), sia quello della possibile fusione fra Deutsche Bank e Commerzbank (di cui lo Stato tedesco detiene - dopo il salvataggio ante-BRRD del 2008 - circa il 17%). Mi sfugge però se la sorpresa e l'orrore siano per la nuova consapevolezza che un Paese membro dell'Unione Europea pensi in primo luogo agli affari propri (in buona compagnia di altri 26 nazioni, peraltro, solo l'Italia esclusa), oppure per il fatto che - mentre da noi si discetta (anche in questi giorni) di bail-in - lì si ricapitalizzi con soldi pubblici senza che la Commissione faccia un plissé.

Certo c'è del vero in questa levata di scudi. Da un lato, infatti, troviamo il Tribunale dell'Unione Europea, che nel 2015 ha confermato una decisione della Commissione UE del 2011 secondo cui la ricapitalizzazione di una banca da parte di soci pubblici non è un Aiuto di Stato qualora avvenga a "condizioni di mercato", orientamento peraltro confermato dalla Commissione nel 2017 per una operazione del governo portoghese a favore della Caixa General de Depositos. Dall'altro, posizioni a dir poco eccentriche della DGComp, come quella che ha qualificato come "Aiuti di Stato" gli interventi del FITD in Tercas. Come ben sottolineato da Francesco Ninfole, in questo modo le norme sulla concorrenza - che dovrebbero servire a mettere tutte le imprese europee "sullo stesso piano" - finiscono in realtà per cristallizzare pregressi vantaggi normativi o istituzionali (alto che svalutazione competitiva...).
D'altronde, la schizofrenia - o strabismo a senso unico - delle Autorità Europee quando si parla di banche è evidente: qui sotto una "domandina" in tema di Npl del senatore Bagnai, rimasta ovviamente senza riposta (non essendovene, chiaramente, alcuna). Se non fossi certo della dirittura morale della signora Verstager e della signora Nouy, direi quasi che abbiano smesso gli abiti degli arbitri per scendere in prima persona in campo.

Tuttavia, fatte queste doverose premesse, una considerazione si impone. Fubini, e tutti i pensosi editorialisti suo colleghi, dovrebbero lanciare alti lai alle dirigenze politiche dei nostri partner (?) europei, oppure riconsiderare le politiche scellerate di alcuni santini istituzionali che il suo giornale - e gli altri della stessa risma - hanno contribuire a creare nell'ultimo quarto di secolo?
L'ordinamento comunitario non ha mai imposto né la privatizzazione in senso sostanziale delle banche di diritto pubblico, né la dismissione del controllo di banche private da parte di Enti pubblici. Scrive chiaro e netto la Commissione: "the EU Treaties are neutral on the type of property ownership. The Commission is therefore bound by the law to give equal treatment to publicly and privately owned banks. If a privately owned bank wanted to strengthen its capital position, it of course has the option to seek further investment from its private shareholders. Similarly, a publicly owned bank can seek investment from its shareholder, the State. Forcing a state-owned bank to first raise money from the market would mean (at least partial) privatisation and would not ensure equal treatment of public and private ownership" ["i Trattati UE sono neutrali rispetto al tipo di proprietà. La Commissione è pertanto vincolata dalla legge a garantire parità di trattamento alle banche di proprietà pubblica e privata. Se una banca di proprietà privata voleva rafforzare la sua posizione patrimoniale, naturalmente ha la possibilità di cercare ulteriori investimenti dai suoi azionisti privati. Allo stesso modo, una banca di proprietà pubblica può chiedere un investimento al suo azionista, lo Stato. Costringere una banca di proprietà statale a raccogliere prima soldi dal mercato significherebbe (almeno parziale) la privatizzazione e non garantirebbe la parità di trattamento tra proprietà pubblica e privata"].
La decisione di privatizzare in senso sostanziale le banche italiane (in contrasto con l'art. 47, c. 1, Cost., ai sensi del quale "la Repubblica... disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito") è tota nostra e si inquadra in quel più ampio contesto di arretramento dell'azione dello Stato in economia che, iniziato in sordina negli anni Ottanta, ha poi dispiegato appieno i suoi effetti nel decennio successivo dopo lo tsunami di Tangentopoli.
Prima la Legge Amato (1990) che si limitava a richiedere la trasformazione in società per azioni degli enti creditizi pubblici, anche attraverso conferimento dell'azienda bancaria (nascevano i c.d. "Enti conferenti", ex banche pubbliche rese holding proprietarie del 100% delle nuove aziende bancarie s.p.a.); poi la L. n. 474 del 1994, che prevedeva che il Tesoro determinasse "criteri e procedure per la dismissione delle partecipazioni degli Enti Conferenti"; quindi la c.d. "Direttiva Dini" (atto abnorme che, in buona sostanza, imponeva la perdita di controllo pubblico "entro 5 anni" per tutte le banche: decisione epocale, su cui il Parlamento non ha avuto alcuna voce in capitolo); infine la “Legge Ciampi” (1999), grazie alla quale gli "Enti conferenti" sono divenuti "fondazioni bancarie", enti di diritto privato con piena autonomia statutaria e gestionale, sancita in modo definitivo dalla Corte Costituzionale nel 2003, con 2 sentenze gemelle firmate Gustavo Zagrebelsky.
Governo Andreotti, governo Berlusconi, governo D'Alema, Corte Costituzionale; Andreatta, Amato, Ciampi, Prodi, Zagrebelsky. Tanto per dire che il Nazareno è un modo di essere, non un patto di governo.
Questi decisioni scellerate, tra l'altro, non solo hanno messo in una posizione di subalternità i nostri Istituti rispetto a quelli di altri Paesi, in cui molte banche sono (o sono tornate, dopo il 2008) in mano pubblica, ma dispiegano ulteriori effetti altrettanto deleteri: paradossalmente, amplificano il potere della (cattiva) politica sul credito; unitamente al nuovo Tub (questo sì, redatto sotto dettatura comunitaria), espongono le banche italiane alla concorrenza di colossi esteri, senza preoccuparsi delle specificità del nostro sistema creditizio (anche l'acquisto di Antonveneta da parte di Mps è la risposta, sbagliata, a un problema concreto, e cioè la contendibilità della banca toscana indotta dal mutato quadro normativo).
Nel frattempo, o applausi scroscianti o al massimo complici silenzi da parte di chi avrebbe dovuto schierarsi a fianco dei risparmiatori, Banca d'Italia in primis. Che solo ultimamente cerca di rifarsi una certa verginità con dichiarazioni imbarazzanti, tanto appaiono ingenue e tardive. L'ultimo capolavoro è di stamattina.
Io, impregnato di cultura cattolica, sono particolarmente incline al perdono. Ma si sa che la cosa funziona se, oltre alla contritio cordis, vi è anche la satisfactio operis:
Là ne venimmo; e lo scaglion primaio
bianco marmo era sì pulito e terso,
ch’io mi specchiai in esso qual io paio.
Era il secondo tinto più che perso,
d’una petrina ruvida e arsiccia,
crepata per lo lungo e per traverso.
Lo terzo, che di sopra s’ammassiccia,
porfido mi parea, sì fiammeggiante,
come sangue che fuor di vena spiccia.
Vedremo. Certe prese di posizioni antigovernative a prescindere non paiono particolarmente incoraggianti.