I. Le Autorità amministrative indipendenti
e la loro latente incostituzionalità
Un tipico esempio di dissoluzione del
circuito democratico è rappresentato dal proliferare delle c.d. “Autorità
indipendenti” (o, con l’ennesimo vieto anglicismo, Authority). Soggetti
palesemente eversivi rispetto al disegno costituzionale originario, incistatisi
nell’ordinamento sulla scorta delle sempre più pervasive direttive comunitarie
dei primi anni Novanta.
È stato scritto, con lodevole onestà: “le autorità indipendenti…
operano… in aree in cui è prevalente il diritto europeo su quello nazionale,
per cui trovano in un dato extra-statale la loro forza o legittimazione
principale. La normativa comunitaria contribuisce anche a definire funzioni e
modalità operative delle autorità indipendenti…. Per questo motivo, sono un
fattore di disaggregazione dello Stato. Sono separate…
dall’apparato amministrativo…, per cui non debbono né porsi problemi di
coordinamento amministrativo, né operare ponderazioni di interessi pubblici
configgenti. In questo senso contribuiscono alla
frammentazione dello Stato. Sono sottratte all’influenza
diretta del governo, nel senso che i titolari non sono nominati da esso, oppure
nel senso che esso non può dar loro direttive. [Inoltre] … il finanziamento è
parzialmente autonomo (a carico dei regolati). Rompono,
quindi, l’unità della funzione amministrativa… Infine, svolgono
funzioni di regolazione o aggiudicazione, non comunque redistributive. Dunque, per esse il principio di legalità opera in modo diverso. Queste
caratteristiche ricorrenti, messe insieme, forniscono una prova della
conclusione per cui le varie specie di
autorità hanno potuto attecchire in un momento storico di
cosiddetta «debolezza della politica». Un sistema politico
nel pieno della sua forza non avrebbe acconsentito a vedersi sottrarre tante
aree di influenza” (Cassese 2011).
La problematicità delle Authority rispetto al diegno costituzionale è
risultata immediatamente chiara in dottrina, sia in termini legittimità (fuoriuscendo dal concetto classico di “amministrazione” di cui agli
artt. 95, c. 1, e 97, cc. 2 e 3, Cost.), sia in termini di
legittimazione (stante il loro ruolo di rottura del circuito
democratico e la difficile individuazione di modalità di controllo sul loro
operato): infatti “le Autorità…, in ragione della loro collocazione nel tessuto
istituzionale e delle funzioni che sono chiamate a svolgere, derogano… ai…
principi elementari del governo parlamentare” (Cheli 2001).
Onde superare il problema, vi è stato chi ha ipotizzato una loro
responsabilità di fronte alla Camere (Cerulli Irelli 2001), recisamente
contestata da chi (Merusi-Passaro 2003, Cassese 2002) ne ha invece evidenziato
le funzioni di garanzia (Niccolai 1996) volte a
evitare la “tirannia della maggioranza” e le ingerenze politiche o
partitocratiche (cioè, in altri termini, a prendere decisioni
discrezionali, quando non schiettamente politiche, al “riparo dal processo
elettorale”). Altri tentativi, certamente un po’ più fondati
giuridicamente ma meno onesti intellettualmente, hanno fatto riferimento al
controllo giurisdizionale che limiterebbe la discrezionalità delle Authority; o alla procedimentalizzazione della loro
attività, che si legittimerebbe democraticamente grazie alla dialettica, in
fase endoprocedimentale, coi soggetti coinvolti nelle decisioni stesse
(Merusi-Passaro 2002 parlano di “litisconsorzio necessario”; Clarich 1999 fa
riferimento al due process of law; Carbone richiama Cons. Stato, 2 marzo 2010, n.
1215; da prospettiva assai diversa cfr. Barra Caracciolo 1997); o, infine,
all’esistenza di un più o meno realistico modello madisoniano (Clarich 2001,
Elia 2002).
Più fondatamente, le direttrici entro
cui la dottrina ha cercato di inquadrare le Autorità indipendenti sono state tre: (i) la loro istituzione
(o successiva “comunitarizzazione”: Manetti 1999) mediante normativa europea (regolamento
o, previo recepimento, direttiva), che dunque aggirerebbe – per il tramite
dell’art. 11, Cost. – l’assetto istituzionale inizialmente disegnato dai
Costituenti; (ii) la loro costituzionalizzazione implicita, che
scaturirebbe dall’incontro delle necessità di tutela dei diritti di libertà di
cui alla prima parte della Costituzione con la nuova architettura delle
competenze normative e regolamentari di Stato e Regioni derivante dall’art.
117, Cost., come modificato nel 2001 (Grasso 2006); (iii) la
possibilità di rinvenire all’art. 97, cc. 2 e 3, Cost., mediante una lettura
“rinforzata” del “principio di imparzialità”, un più cogente “principio di
neutralità” che imporrebbe – in settori incidenti su diritti
particolarmente significativi per i cittadini – la rottura del circuito di
indirizzo politico (Carbone; Rolli-Taglialatela; Durante; Giraudi-Righettini 2001, che parlano di
“democrazia dell’efficienza”).
Ma, a ben vedere, questi tre argomenti
si riducono soltanto a uno, l’UE (§ II). Il
diritto derivato dell’Unione è infatti subordinato al rispetto dei principi
fondamentali della Carta italiana, tra cui il principio della “riserva di
legge” (in particolare, all’art. 41, Cost.); ugualmente, la presunta costituzionalizzazione
di cui all’art. 117, Cost. (che farebbe da fondamento anche alla potestà
semi-normativa di molte di queste Authority: Rolli-Taglialatela),
passa per l’introduzione nella Carta di una serie di “materie”, rimesse alla
potestà legislativa dello Stato, in tensione dialettica rispetto all’assetto
economico-istituzionale disegnato nel Quarantotto (caso tipico: la
concorrenza); infine, il “principio di neutralità” pare assai poco compatibile con
un uno Stato in cui “l’iniziativa economica privata… non può svolgersi in
contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla
libertà, alla dignità umana” (art. 41, c. 2, Cost.), apparendo invece come uno
dei pilastri del Trattato di Maastricht.
II. Gli “argomenti” a favore delle
Autorità indipendenti
L’argomento della “comunitarizzazione” delle Autorità indipendenti
assume varie sfaccettature. Quella che fa leva sulla “natura delle cose”
(Merusi 2000), che imporrebbe la creazione di una par condicio concorrenziale anche al di fuori del
diritto positivo interno o comunitario, e che però si scontra con la rigidità
della Costituzione italiana (non a caso molti Autori hanno ritenuto opportuna
una costituzionalizzazione esplicita: v. p.e. la riforma costituzionale del
2006 – Atti Camera n. 4862-B e Atti Senato n. 2544-D – poi bocciata con referendum). Ma, soprattutto, quella che collega la
legittimità delle Authority al diritto derivato
UE, da un lato esponendo ad un giudizio di incostituzionalità quei soggetti –
come la Commissione per il diritto di sciopero nella P.A. – che con il diritto
europeo nulla hanno a che fare; dall’altro imponendo una volta per tutte di
fare i conti con il mai completamente risolto problema del rapporto fra diritto
comunitario e Costituzione. Infatti, delle due l’una: o i Principi costituzionali prevalgono su regolamenti e direttive,
oppure – viceversa – tali atti normativi, unitamente ai Trattati da cui
dipendono, hanno effettivamente dato forma a quella che è stata chiamata la
“nuova costituzione economica” (Cassese, 2012).
Non diverso è il secondo argomento, che collega la vecchia idea della
necessità di tutelare con particolari garanzie il rispetto dei diritti
fondamentali di cui alla prima parte della Costituzione (i domaines sensible della dottrina francese) alla
riforma del Titolo V del 2001 (Giacobbe 1999, Grasso 2006), la quale non solo
ha ribadito una lettura dell’art. 11, Cost. come “porta” di entrata nel nostro
ordinamento di ordinamenti differenti e, eventualmente, confliggenti, ma ha
altresì individuato una serie di settori, oggetto di potestà legislativa
statale, i quali da un lato si pongono in rapporto dialettico con altre norme
della Carta (p.e. la “concorrenza” rispetto al “coordinamento dell’economia
pubblica e privata a fini sociali”), dall’altro appaiono come tipici settori di
azione delle Autorità.
In
quest’ottica, la nascita di una Autorità indipendente è stata vista come un
“superamento” in melius dei principi di riserva di legge e di
riserva di giurisdizione, in tutti quei settori
– diritti e libertà – in cui si vogliono impedire eventuali decisioni a “colpi
di maggioranza”. Così, vi è stato chi ha individuato nell’ordinamento una
attribuzione diretta alle Autorità indipendenti – “in connessione con un
compito da assolver alla luce di principi generali e non per il conseguimento
di interessi e finalità specificamente… individuati” (Merusi 1981, Marzona
1988) – di un potere normativo al di fuori del comune “principio di
legalità”, con conseguente creazione di atti liberi non tipizzati dalla legge
(si pensi alle Istruzioni di Banca d’Italia, o ai pervasivi poteri attribuiti
alla ARERA già AEEGSI), e chi invece ha ricondotto gli atti
delle Authority a regolamenti (in una accezione –
ricavabile dall’art. 117, Cost., ma anche in C. Cost. 21 maggio 1970, n. 79 –
più ampia di quella, comune, di cui all’art. 87, c. 5, Cost.) i quali non
intaccano il principio di “riserva di legge” (relativa: artt. 23 e 41, Cost.)
posto che la norma primaria fissa previamente, rispetto al soggetto emanante,
idonei parametri in ordine all’ambito di intervento e di svolgimento delle
attività (C. Stato, 29 maggio 2002, n. 2987; Grasso 2006). Tesi tuttavia
vigorosamente avversate da coloro (Cerulli Irelli 2001, Bianco 2003) che hanno
sottolineato da un lato l’insuperabilità di eventuali riserve di legge
assolute ovvero la troppa genericità di alcune leggi istitutive (i
poteri del Garante della privacy, in questo
senso, pongono interrogativi enormi) e dall’altro il deficit democratico insito in queste prese di
posizione dottrinali (soprattutto quando si ritiene che la “riserva di legge”
possa essere soddisfatta da un atto normativo UE: C. Cost. 10 novembre 1999, n.
425; sul problema del deficit democratico
nel sistema normativo UE, v. Majone 1998; Faraguna 2010).
Ma è evidente – e veniamo al terzo argomento – che ricostruzioni del genere
non può che poggiare sulla enucleazione del già ricordato “principio di
neutralità” come “superamento” del concetto giuridico di “imparzialità”.
Concetti però profondamente diversi, l’uno collegato all’idea di uguaglianza
sostanziale di cui all’art. 3, c. 2, l’altro all’economicismo liberale che
fonda l’uguaglianza formale: “l’imparzialità corrisponde
all’obbligo della P.A. di valutare complessivamente tutti gli interessi
pubblici e privati… coinvolti nella fattispecie, per il raggiungimento del
miglior interesse pubblico, ma tra tali interessi l’interesse pubblico della
amministrazione pubblica ha valore primario; la neutralità corrisponde invece
al distacco, alla indifferenza da tutti gli interessi” (Mazzella).
Il che conduce a due considerazioni. La prima, che riconoscere uno
slittamento ordinamentale dal principio di imparzialità a quello di neutralità
comporta nuovamente riconoscere anche una modifica implicita della Costituzione
economica italiana (§ III). La seconda, che in assenza di questo slittamento si
deve concludere che la Costituzione ha inteso predisporre un unico modello amministrativo,
incardinato sul governo come organo di indirizzo politico (Manetti 2003), che
infine lo slittamento è più semantico che effettivo, ove si consideri che “i
diritti ed i valori tutelati dalle Autorità indipendenti, più di altri
diritti e valori, sembrano esprimere l’esigenza di un necessario bilanciamento
e di una reciproca limitazione di situazioni giuridiche soggettive” (v. § IV).
III. La “nuova costituzione economica”
(europea)
Il lungo ragionamento di cui sopra – che ha ricordato gli obblighi di
intervento dello Stato in economia e le conseguenti riserve di legge in materia
imposte dai Costituenti – conduce ad un’unica conclusione. Propendere per la legittimità delle Authority comporta
aderire all’ipotesi di una “nuova costituzione economica” introdotta nel nostro
ordinamento dal Trattato di Maastricht (Cuocolo 2000, Merusi
2001), grazie alla quale da un lato si potrebbe dissolvere il principio
dell’unitarietà dell’indirizzo politico ed amministrativo di cui all’art. 95,
c. 1, Cost., dall’altro i principi della funzione sociale della proprietà e
della programmazione in campo economico (artt. da 41 e 43, Cost.) sarebbero
stati superati da quelli collegati al “libero mercato”, in cui il
“cittadino” e “l’impresa” – considerati uti singuli –
si trovano in una posizione di preminenza rispetto allo Stato ed alle istanze
sociali di cui esso si sarebbe dovuto fare portatore (Guarino 1999; Cassese
2012, che parla di passaggio da uno “Stato imprenditore” a uno “Stato
regolatore”).
Si è così addirittura parlato – forse in
modo un po’ provocatorio – di “Enti autarchici dell’Unione Europea” (Merusi
2001), “neutrali” rispetto agli interessi in gioco (che però, non contemplando una attività equilibratrice a favore
della parte debole, è come dire a favore del più forte), o anche di
“quarto potere” (Foà 2002; contra sia
Morbidelli 1997 sia Cons. Stato, 28 novembre 2012, n. 6014).
È chiaro, allora, il motivo per cui la
Corte Costituzionale non ha mai voluto pronunciarsi in modo veramente chiaro
sulla legittimità costituzionale delle Autorità indipendenti (così C. Cost., 7 novembre 1995, n. 482 e C. Cost. 28
gennaio 1991, n. 32; ma v. C. Cost. 8 giugno 1994, n. 224, secondo cui “la
particolare forza propria delle norme poste nello Statuto speciale [delle
Province autonome di Trento e Bolzano non] può essere tale da giustificare la sopravvivenza
di competenze provinciali quali quelle in esame, una volta che le stesse vengano a contrastare con discipline
adottate in sede comunitaria…”). Si tratta di un certo pudore che porta i Giudici ad evitare pronunce troppo chiare
sull’effetto distorsivo che l’adesione all’UE ha avuto sui principi, anche i
più importanti, della nostra Carta (classico l’esempio dei
“controlimiti”, i quali – come l’Araba Fenice – che vi siano ciascun lo dice,
ma dove siano nessun lo sa, dato che non sono stati chiamati in causa
direttamente neppure nel caso Taricco). Di fatto, tuttavia, gran parte
della dottrina non ha problemi a concludere che le leggi istitutive di Autorità
indipendenti “comunitarizzate” hanno contenuto costituzionalmente vincolato e,
dunque, non possono essere oggetto di semplice abrogazione da parte del
legislatore.
IV. La “sofocrazia” delle Autorità
Come la questione in ordine alla legittimità delle Authority (in assenza del collegamento
amministrativo ai sensi dell’art. 95, Cost.) si lega strettamente
all’enucleazione di una “nuova costituzione economica” (europea), così il dilemma in merito alla loro legittimazione (in assenza del
rispetto del circuito democratico) si collega ai principi di “competenza del
decidente”, di “razionalità contenutistica della decisione”, di “correttezza
formale del processo decisorio” (classicamente: Weber 1968,
Luhmann 1995). Si è addirittura parlato di “sofocrazia delle Autorità”
(Romano Tassone 2003).
Una “spia” significativa di questo atteggiamento si riscontra nelle diverse
opinioni dottrinarie e giurisprudenziali in materia di sindacato sui
provvedimento delle Autorità: in particolare, “ci si è chiesti… se il giudizio
su un provvedimento o su un regolamento di un’Autorità indipendente sia uguale
al giudizio su un qualsivoglia provvedimento o regolamento di una «normale»
amministrazione; quanto al sindacato giurisdizionale possa
penetrare sulla c.d. discrezionalità tecnica, che certamente
caratterizza in modo tipico gran parte dell’attività delle Autorità…; se sia
doveroso (o opportuno) circoscrivere il sindacato giurisdizionale a
specifiche categorie di vizio, nonostante l’art. 113 Cost.,
o meglio se sia possibile «ritagliare» al loro interno le tradizionali
categorie” dei vizi dell’atto amministrativo (Grasso 2006; corsivi ed enfasi
nostri).
La dottrina che più ha sostenuto questa “intangibilità” giurisdizionale
delle Autorità indipendenti si è quasi naturalmente rifatta all’elaborazione
tedesca dei “concetti giuridici indeterminati”, i quali verrebbero a
concretezza per mezzo della mediazione tecnica delle Authority le quali, a loro volta, agirebbero di fatto entro
“binari obbligati” anche laddove il legislatore ha lasciato loro il massimo
della libertà, posto che i principali parametri decisionali non potrebbero
assumere altro valore rispetto a quello (pre)determinato da questo o quel
sapere scientifico (o tecnico) (De Minico 1997, Malinconico
1996).
Deve certamente inclinare all’ottimismo il fatto che dottrina (Morbidelli
1997) e giurisprudenza (Cons. Stato, 2 marzo 2004, n. 926) abbiano reagito
subito, vigorosamente, a questo atteggiamento, evidenziando fra l’altro
come questa supposta neutralità tecnica sfoci spesso in una accentuata
discrezionalità, ove le decisioni poggino su “giudizi opinabili sul piano
tecnico scientifico”, o su “valutazioni metagiuridiche”, o ancora su “concetti
indeterminati” che impongono “un giudizio di valore” (in pratica, sempre) (Lazzara
2001). Ma il fatto stesso che la questione si sia posta “scopre” con chiarezza
il “nodo ideologico” (che noi abbiamo chiamato burionismo) che sta dietro l’istituzione di
soggetti così autoreferenziali. Non a caso vi è stato chi ha notato che, alla
fin fine, la decisione “non può essere dimostrata oggettivamente e… si
legittima solo per il riferimento alla qualità del soggetto che l’ha
presa…, per la sua credibilità”
(Corletto 2003, corsivo nostro).
In questo senso, si contrappone alla ingenua epistemologia della Corte Costituzionale l’acuta osservazione secondo cui, nella maggior parte dei casi, le Autorità muovono “da scelte orientate politicamente piuttosto che tecnicamente”, tendenti soprattutto “ad allineare il diritto dell’economia vigente nel Paese in cui operano ai principi cui si ispira l’Unione Europea…” (Pizzorusso 2011). Col bel risultato, aggiungiamo noi, di considerare come “norme tecniche” anche le c.d. “leggi del mercato” (Merusi-Passaro 2003).
V. Conclusioni
Concludendo, le Autorità indipendenti si caratterizzano
come uno dei più significativi casi di rottura del disegno politico-economico
dei Costituenti, poggiando – sotto il profilo della legittimità
– sulla dissoluzione dell’unitarietà dell’indirizzo politico a seguito
dell’introduzione, accanto al principio di imparzialità della P.A. (proprio di
uno Stato sociale), di un supposto principio di
neutralità (proprio di uno Stato meramente regolatore, com’è quello “disegnato”
nei Trattati UE), e – sotto il profilo della legittimazione –
dalla sostituzione del principio “tecnocratico” (secondo
cui il legislatore sarebbe “incapace di dettare regole puntuali” ed è “tutt’al
più in grado di fissare gli obiettivi della regolazione”: v. Clarich 2011) al principio “democratico”.
Col bel risultato di contrabbandare per
scelte tecnicamente obbligate quelle che sono in realtà decisioni
discrezionali, per neutralità quello che è invero un bilanciamento di interessi
contrapposti, il tutto evidentemente a favore delle parti economicamente più
forti (che, spesso, “catturano” le
Autorità che dovrebbero controllarle, sia dal punto di vista
tecnico-scientifico, sia da quello economico).
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