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mercoledì 2 dicembre 2015

Poletti (dal cottimo allo smart working)

Twitter è un ottimo strumento, anche di informazione. Però ha anche dei lati negativi: tra questi, quello di imbattersi, senza volere, in certe notizie.
Ognuno, evidentemente, sogna quello che gli pare. Magari, a causa dei sogni che fa, dorme anche male, e dunque - poco lucido - va a un convegno e dice che, secondo lui, "dovremo immaginare un contratto di lavoro che non abbia come unico riferimento l’ora di lavoro ma la misura dell’apporto dell’opera", soprattutto visto che, sempre secondo il suo eccellente parere, "l’ora di lavoro è un attrezzo vecchio che non permette l’innovazione".
Ognuno, dicevo, sogna quel che gli pare. Però, se la persona in questione è Ministro del Lavoro, certi sogni potrebbe lasciarli nella propria sfera privata, senza propalarli urbi et orbi. O, al massimo, visto il tenore dei medesimi (d'altronde, sono sogni: alzi la mano chi, la notte, pensa cose coerenti mentre dorme), potrebbe farli oggetto di verifica nel segreto del foro interno.
Non per altro, se non - quanto meno - per evitare penosi fraintendimenti e qualche travaso di bile (non della Camusso, che l'ha preso come uno scherzo. Anche se non siamo d'aprile).
Dunque, chiariamo - a noi, per carità!, non a Poletti, che non ne ha bisogno - alcuni concetti che, evidentemente per dimenticanza del legislatore, fanno ancora parte del nostro ordinamento giuridico. Ci potrebbe essere infatti ancora qualche vecchietto che, per ignoranza, s'intende, sotto la barba del nostro cooperante preferito sente rimbombare il vecchio adagio: "un pezzo, un culo...".



Dunque. Molti hanno fatto presente a Poletti che quello che lui sogna esiste già, e si chiama "cottimo".
In questa frase c'è del vero. Intanto, però, chiariamo alcune cose (anche in relazione a quello che ho letto, sempre su Twitter).
Il cottimo non è vietato. Anzi, è regolato da alcune disposizioni del codice civile. Secondo l'art. 2099, c.c., "la retribuzione del prestatore di lavoro può essere stabilita a tempo o a cottimo". Addirittura, secondo l'art. 2100, c.c., "il prestatore di lavoro deve essere retribuito secondo il sistema del cottimo quando, in conseguenza dell'organizzazione del lavoro, è vincolato all'osservanza di un determinato ritmo produttivo, o quando la valutazione della sua prestazione è fatta in base al risultato delle misurazioni dei tempi di lavorazione". Certo, l'art. 36 della Costituzione è entrato in maniera prepotente nella materia, imponendo - pari pari - che al lavoratore sia assicurata "una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa" (la "sufficienza" della retribuzione è assicurata, secondo la comune giurisprudenza, dal fatto che la paga oraria è oggetto di contrattazione collettiva nazionale: questo almeno finché Matteo non penserà al famoso salario minimo, ne abbiamo parlato qui). La "quantità di lavoro" che può essere richiesta al dipendente, d'altronde, conosce dei limiti normativi: "la durata massima della giornata lavorativa è [infatti] stabilita dalla legge" (attualmente, il D. Lgs. n. 66 del 2003) e "il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite", né "può rinunziarvi".
A bilanciare norma costituzionale e disposizione civilista intervengono per lo più i contratti collettivi (così tanto vituperati dagli pseudo-liberisti de' noartri), che spesso vietano il cottimo, o lo ignorano. Tale forma retributiva continua dunque a sopravvivere soltanto nell'industria automobilistica, in quella ferroviaria, in alcuni settori manifatturieri, laddove - in sostanza - "il ritmo di obsolescenza delle tecniche produttive è meno rapido e quindi il tempo normale della prestazione è meno soggetto a variazioni", mentre (ci dice Ichino... Ichino!, senatore PD) è "abbandonato dove il perseguimento continuo di un miglioramento della produttività del lavoro attraverso modifiche frequenti della sua organizzazione rende impraticabile il riferimento a tempi assestati oppure dove l'intensità dell'impegno del lavoratore deve incidere soprattutto sul miglioramento della qualità del prodotto".
Questo mi sembra il primo punto importante. La frase del Ministro appare, oggettivamente, intendere il lavoro come mero fattore di produzione e, dunque, voler favorire misurazioni alternative dell'impegno lavorativo degli impiegati in settori a basso valore aggiunto, onde - evidentemente - comprimerne i salari attuali. D'altronde lo stesso Poletti, di recente, ha parlato di forme di partecipazione dei lavoratori ai risultati aziendali e di retribuzioni collegate a "obiettivi"; molti ricorderanno, poi, l'uscita di questa estate sul lavoro (gratuito) degli studenti in vacanza. Ancora: in questo quadro appare sospetto il continuo riferimento all'importanza della contrattazione di secondo livello.
Vi è poi un altro punto, ancora più importante. Poletti, quando ha detto quello che ha detto, stava con ogni probabilità pensando non tanto al cottimo, bensì a quello che - con orrido anglicismo - viene chiamato "smart working" (ancora più oscenamente detto, in italiano, "lavoro agile": sulla questione vi è già, ovviamente, tutta una oleografia da parte dei giornaloni, ma tralasciamo...). Si può presumere che con questa assurda uscita volesse lanciare il disegno di legge che dovrebbe essere presentato, a breve, in Parlamento, e che dovrebbe contenere nuove regole volte a permettere ai dipendenti di lavorare fuori dai locali aziendali, anche solo per un giorno o due a settimana, utilizzando in maniera massiccia dispositivi elettronici, fermo restando lo stipendio e la relativa copertura assicurativa. Le disposizioni in questione dovrebbero poi incentivare il coworking, oltre che collegare - appunto - retribuzione e raggiungimento di obiettivi prestabiliti in autonomia.
Un p.d.l. in questo senso (recante: "nuove forme flessibili di telelavoro": sì perché il lavoro agile è proprio uno stato intermedio tra lavoro classico e telelavoro propriamente detto) era già stato peraltro presentato nel 2014 da deputati del PD e di Scelta Civica (tra cui Alessia Mosca e Irene Tinagli, per capire di che si parla).
Pare bello, come no. Però...
Intanto, l'idea di una gestione flessibile dei tempi di lavoro e di una progressiva delocalizzazione dei lavoro mi sembra plausibile soprattutto nel quadro di grandi imprese di servizi a forte vocazione tecnologica (penso, per esempio, al settore della telefonia), così che preoccuparsi di cose del genere nell'Italia di oggi, alle prese con una deindustrializzazione feroce che morde soprattutto piccole e medie imprese, vero cuore del tessuto industriale del nostro Paese, mi sembra quanto meno il tentativo di inserire un corpo estraneo in un sistema economico-culturale coerente. Diciamo, la festa di Halloween applicata al diritto del lavoro.
Ma su questo si potrebbe anche glissare.
Secondo, è bene tenere presente che lo slogan con cui si presenta il lavoro agile ("work, anywhere, anytime") è, a dir poco, forviante. Più giusto sarebbe: "work, everywhere, everytime". "L'adozione di modelli di lavoro Smart può aumentare la produttività delle aziende per un valore di 27 miliardi di Euro", ci dice per esempio un sito di digital innovation.
Ma anche su questo, passiamoci sopra.
Quello che mi preoccupa di più - lieto di sbagliarmi, eventualmente - è il continuo tentativo del legislatore volto a distruggere alcuni cardini della contrattazione collettiva (e, in fondo, la contrattazione stessa): si annacqua l'orario di lavoro, si respinge la retribuzione oraria, si ripensano addirittura le norme sulla sicurezza del lavoro. Lentamente, si traslano responsabilità ("lo scopo del progetto di legge è di estendere a tutti i lavoratori il campo di applicazione del lavoro agile..., e lo fa allentando gli obblighi di sicurezza a carico del datore di lavoro", scrive la velina rosa), si allentano vincoli e rapporti aziendali (non è un caso che il Jobs Act, dichiarando di abolire il lavoro a progetto, abbia nei fatti rivitalizzato le vecchie collaborazioni coordinate e continuative), in una parola si colma sempre di più quello iato che è pur sempre esistito fra lavoro subordinato e lavoro autonomo (o, il che è lo stesso, si apre una voragine fra lavoratori, che si pensano apportatori di mezzi di produzione completamente irrelati fra di loro, non soggetti che agiscono e si interrelano in una comunità aziendale).
Non a caso, è proprio Poletti a parlare di un prossimo intervento coerente del Governo - di tutela, dice lui - sul mondo delle Partite Iva.



Insomma, il mio timore è che dietro il lavoro agile, l'orario flessibile, le retribuzioni snodabili, e chi più ne ha più ne metta, si celi il tentativo di rendere i lavoratori sempre più simili a consulenti, che danno il loro contributo, nelle forme più diverse, per uno o più progetti aziendali, poi tanto prendono la loro valigia e si spostano altrove. Per lo spostamento, ad ogni modo, ci pensa il D. Lgs. n. 23 del 2015 (o, per i più fortunati, il nuovo art. 18).
A confermarmi in queste supposizioni, arriva proprio oggi un magistrale post di Bruno de Giusti, di cui riporto qualche stralcio:
nel mondo occidentale, secondo lui, "ogni attività di qualsiasi natura (operazione di appendicite compresa) è svolta a progetto; avete presente quella roba, quell'attività che ha un obiettivo, un inizio, una fine, un elenco di deliverables (fa figo chiamarli così, ma si tratta soltanto di banalissimi risultati), un budget..., un project plan...? Ecco, quello è un progetto. Le aziende – ma ormai tutta la struttura socioeconomica – si stanno orientando da anni a quest’approccio, così che, ad esempio, è facile prevedere che presto non esisteranno più dipartimenti amministrativi o di risorse umane, ma il tal progetto si occuperà... dell’amministrazione relativa e anche delle risorse necessarie... Scompariranno, insomma, o si ridurranno al minimo, tutti quei dipartimenti che oggi ancora svolgono attività di routine... aziendale... A livello aziendale più alto esisteranno programmi... e portafogli di progetti e programmi (il cui controllo – facile prevederlo – sarà direttamente in mano all'alta dirigenza aziendale...). Fico, eh...? Peccato che ciò implichi una cosuccia da niente. Negli ultimi 18 anni ho vissuto in 19 Paesi e ho gestito 30 progetti (il che significa “vivere” in 30 aziende-clienti più quelle in cui ho formalmente lavorato)... Ecco, sappiate che un uomo che in 18 anni gira 19 Paesi, 30 progetti e più di 30 aziende è finito, burnt out. Morto. Sepolto. Ha perso ogni radice e quasi tutte le relazioni di base e per questo ha le crisi d’ansia; non ha una famiglia oppure ne ha molteplici, irraggiungibili... Non ha una casa, un villaggio, una città, una provincia, una regione, un fiume, un monte, un prato fiorito a primavera, una strada, un bar con gli amici del posto... Si sente spersonalizzato..., si rende conto di vivere una situazione senza futuro".
Il resto del post non lo svelo, perché vale la pena lasciarvi la sorpresa. Ma il messaggio è chiaro. Sempre più spesso il legislatore si intesta la volontà di portare avanti il principio della conciliazione vita-lavoro (addirittura, questo principio è inalberato in testa ad uno dei Decreti del Jobs Act, il n. 80 del 2015).
Il problema è che, a breve, non avremo più una vita e, forse, nemmeno un lavoro.
Sì, perché c'è un ulteriore non-detto nelle parole di Poletti, che si inquadrano in una visione distopica del futuro, in cui il lavoro manuale sarà o rimpiazzato dall'automazione (pensiamo per esempio alle linee di métro già oggi senza guidatore), oppure appannaggio di quella - che un ulteriore insopportabile anglicismo - viene chiamata share economy. Non avremo un posto fisso, ma solo dei risultati da raggiungere, ora qui ora là, non creeremo nulla con le nostre mani, non possederemo alcunché perché tutto sarà in prestito. Non avremo neanche un reddito, che non sia quello grillino (ma auspicato anche da Von Hayek, per dire) di sudditanza.
In un futuro così, che ce ne dovremmo fare, dell'orario di lavoro?

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