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giovedì 18 agosto 2016

Niente gufi. Tutti più (c)ottimisti!

Per lungo tempo l'interpretazione tradizionale della rivoluzione industriale ha insistito sul suo carattere di frattura epocale nella storia della civiltà umana. Era questo l'aspetto saliente e comune sia nelle versioni marxiste... sia nelle versioni "scientiste"..., sia nelle versioni macroeconomiche che ricostruivano l'evoluzione degli indicatori statistici generali... Le ricerche più recenti hanno invece messo in discussione la discontinuità, elaborando una versione "continuista" dello sviluppo economico inglese... Nicholas Crafts... ha... ridimensionato l'aumento del reddito nazionale e degli investimenti e ricostruendo una dinamica dello sviluppo più lenta, lungo tutto il mezzo secolo compreso tra il 1780 e il 1830. In parallelo a questa visione continuista era stato proposto... il concetto di "proto-industrializzazione" per indicare un fenomeno... definito dalla presenza di: 1) una parte cospicua della forza-lavoro agricola che integra il lavoro nei campi con attività manifatturiere... svolte a domicilio con macchine fornite da un mercante-imprenditore...; 3) un'economia monetaria che consenta ai proprietari di acquistare materie prime e fornirle ai lavoratori agricoli in grado di trasformarle... Questa... non è in sostanza che una ridefinizione del fenomeno dell'industria a domicilio. Tra i molti studi sull'argomento, si segnala quello di tre storici tedeschi, P. Kriedte, H. Medick, J. Schlumbohm... Medick in particolare afferma il ruolo cruciale svolto dalla famiglia contadina nello sviluppo del capitalismo moderno proprio grazie ai suoi comportamenti pre-capitalistici: attraverso il lavoro a domicilio essa mira alla sussistenza anziché a un guadagno in moneta, consentendo al mercante-imprenditore di risparmiare sui costi e sui rischi del suo investimento... (Detti, Storia contemporanea, L'ottocento, Milano, 2000, pp. 35-36; enfatizzazioni mie).
Certo, il lavoro a domicilio è continuato ad esistere fino ai giorni nostri, sia pure limitato ad alcune specifiche sacche del manifatturiero, soprattutto in ambito tessile. In mancanza di indicazioni codicistiche specifiche (art. 2128, c.c.), la L. n. 877 del 1973 dispone norme ad hoc e definisce lavoratore a domicilio "chiunque, con vincolo di subordinazione, esegue nel proprio domicilio o in locale di cui abbia disponibilità, anche con l’aiuto accessorio di membri della famiglia conviventi e a carico, ma con esclusione di manodopera salariata e di apprendisti, lavoro retribuito per conto di uno o più imprenditori, utilizzando materie prime o accessorie e attrezzature proprie o dello stesso imprenditore, anche se fornite per il tramite di terzi". Si ha "vincolo di subordinazione", "in deroga a quanto stabilito dall'art. 2094 del c.c...., quando il lavoratore a domicilio è tenuto ad osservare le direttive dell’imprenditore circa le modalità di esecuzione, le caratteristiche e i requisiti del lavoro da svolgere nella esecuzione parziale, nel completamento o nell'intera lavorazione di prodotti oggetto dell'attività dell’imprenditore committente".
Il problema della subordinazione, o - se si vuole - della parificazione del lavoratore a domicilio e del lavoratore interno alla azienda, è costante nella giurisprudenza e nell'evoluzione legislativa. Così, l'art. 2 della L. n. 877 - ai sensi della quale è "fatto divieto alle aziende interessate da programmi di ristrutturazione, riorganizzazione e di conversione che abbiano comportato licenziamenti o sospensioni dal lavoro, di affidare lavoro a domicilio per la durata di un anno rispettivamente dall'ultimo provvedimento di licenziamento e dalla cessazione delle sospensioni" - è stato spesso aggirato dalla contrattazione collettiva, tesa per lo più a parificare il lavoratore in azienda da quello fuori azienda. La giurisprudenza ha inoltre dovuto faticare ad applicare (quando c'era) l'art. 18, agganciandone l'operatività alla dimostrazione caso per caso "di una qualificata e ragionevole continuatività delle prestazioni lavorative". La stessa impostazione, assai poco tutelante, si è riscontrata rispetto al riconoscimento dell'indennità di mobilità (v. le Sezioni Unite n. 106 del 2001). Col bel risultato di creare un lavoratore a domicilio "continuativo" e uno "precario".
Da altro punto di vista, la retribuzione dei lavoratori a domicilio non può che essere evidentemente calcolata con il metodo del cottimo pieno (art. 8), con riferimento, per la sua concreta determinazione, a quanto disposto dai contratti collettivi di categoria; generalmente essa viene fissata sulla scorta del concetto di normale capacità lavorativa ad eseguire i lavori oggetto della commessa. Si tratta comunque di dati indicativi, riconoscendosi la possibilità per il lavoratore a domicilio di chiedere al giudice l'adeguamento o, in mancanza, la determinazione della retribuzione ex art. 36 Cost. (v. p.e. le Sezioni Unite, sent. n. 828 del 1982).
Il lavoro a domicilio e il cottimo, due istituti inscindibilmente collegati che, si pensava, fossero il retaggio di un mondo passato.
Il cottimo è obbligatorio quanto la valutazione della prestazione è fatta in base al risultato delle misurazioni dei tempi di lavorazione, quando cioè si procede preventivamente... all'accertamento del tempo necessario al lavoratore medio per compiere l'operazione commessagli... La legge fa... riferimento ai sistemi... d'organizzazione scientifica del lavoro...; sistemi la cui finalità è quella di congegnare le lavorazioni in modo da razionalizzare al massimo lo sfruttamento della forza lavoro, con la più alta intensità possibile e con la massima resa, tutto calcolando scientificamente in termini di tempo e di sforzo fisico e psichico (e da qui il dramma della condizione operaia, nella sistematica denuncia dei ritmi ossessivi di lavoro ripetitivo, usurante ed alienante nelle condizioni della società industrializzata...). Coerentemente, per legge, quando le lavorazioni sono così congegnate..., quando tutto è preordinato in ragione del risultato, deve adottarsi il sistema del cottimo... (Pera, Diritto del lavoro, Padova, 1996, pp. 490-491, enfatizzazioni mie).
Il prof. Pera cita Chaplin e Clair. Io aggiungerei Petri.



Tutto questo mi è tornato in mente l'altro giorno, mentre leggevo come, zitto zitto quatto quatto, sta procedendo in Parlamento il disegno di legge relativo a "Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e [a] misure volte a favorire l'articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato" (il dossier completo è qui).
Il testo, nel consueto stile italico (ma che - in questo caso - ha anche ragioni profonde), è la risultante della somma di due leggi distinte e di una delega (divisa, chissà perché, in tre articoli):
- gli artt. 5, 6 e 10 che delegano il governo a rimettere mano al mondo delle professioni, attribuendo alcune funzioni pubbliche direttamente agli iscritti in determinati albi (avvocati, notai, architetti, ingegneri), istituendo per il tramite delle Casse degli stessi professionisti forme di sostegno al reddito, riducendo gli obblighi in materia di sicurezza sul lavoro per i titolari di studi;
- il capo I, che reca norme a tutela dei lavoratori autonomi, soprattutto quelli con unico committente, relativamente ai tempi di pagamento delle fatture, al recesso o allo ius poenitendi della controparte, alla formazione, alle tutele assistenziali e previdenziali, all'accesso agli appalti pubblici (artt. 1, 2, 3, 4, 7, 8, 9, 12, 13);
- il capo II, che attiene al c.d. "lavoro agile" (artt. da 15 a 20).

Ecco, il "lavoro agile" o, per chi non sa l'inglese, lo smart working. Cioè, in buona sostanza, il vecchio lavoro a domicilio, un po' imbellettato per renderlo meno impresentabile, traslato - grazie allo sviluppo dell'informatica - dal mondo della manifattura a quello dei servizi. E visto che, nel caso di specie, il cottimo non si può applicare, si utilizzeranno allo stesso fine i bonus variabili, che fanno tanto multinazionale anglosassone e sono pure detassati.
Non si tratta [in sostanza] di un sotto-tipo (acrobatico o circense) del lavoro autonomo né del lavoro parasubordinato, [ma soltanto] di un alto modo per chiamare il telelavoro subordinato (prof. Oronzo Mazzotta).
Secondo il nostro illuminato governo, infatti, il "lavoro agile" è una "modalità flessibile di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato, allo scopo di incrementarne la produttività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro", che si svolge "in parte all'interno di locali aziendali e in parte all'esterno", "entro i soli limiti di durata massima dell'orario di lavoro giornaliero e settimanale..." e "assenza di una postazione fissa durante i periodi di lavoro svolti all'esterno dei locali aziendali".
Quale dei due obiettivi sia realistico, e quale invece rappresenti una foglia di fico buona per i gonzi di tutti gli orientamenti, non c'è neppure bisogno di scriverlo. Noto soltanto che Matteo e i suoi sodali ci vogliono talmente bene che, pur di farci conciliare i tempi di vita (molti) con quelli di lavoro (pochi), non solo ci sbattono fuori dall'ufficio, ma già che ci sono ci demansionano anche. Mi immagino già la scena: "sì, sai, mi hanno tolto la scrivania e messo a fare il centralinista da casa, così almeno ho molto più tempo per perfezionare il draw alla buca otto".
Per essere certi che il dipendente concili al meglio, "l'accordo relativo alla modalità di lavoro agile disciplina [anche] l'esercizio del potere di controllo del datore di lavoro sulla prestazione resa dal lavoratore all'esterno dei locali aziendali nel rispetto di quanto disposto dall'articolo 4" dello Statuto dei Lavoratori.
Ora, come si sa il diavolo si nasconde nei dettagli. Si dà infatti il caso che il sullodato Matteo quell'articolo lo abbia cambiato col Jobs Act (quello delle due ore di sciopero da parte dei sindacati italiani), permettendo il controllo a distanza dei dipendenti attraverso gli "strumenti utilizzati... per rendere la prestazione lavorativa" e, anzi, precisando addirittura come "le informazioni raccolte... siano utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro...". Ricordo, per gli ingenui, che i telefonini hanno un geolocalizzatore, che gli accessi a internet possono essere tracciati, che - al limite - i portatili hanno spesso una webcam integrata. Per dire.
Trattandosi di un governo di sinistra, ha ritenuto opportuno precisare che al lavoratore che si comporta bene deve essere riconosciuto "un trattamento economico e normativo non inferiore a quello complessivamente applicato nei confronti dei lavoratori che svolgono le medesime mansioni esclusivamente all'interno dell'azienda". Quei due aggettivi e quell'avverbio, nella medesima frase, mi fanno rizzare i peli sugli avambracci.
Tanto più che, a mo' di ciliegina sulla torta, "i contratti collettivi, di cui all'articolo 51 del D. Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, possono introdurre ulteriori previsioni finalizzate ad agevolare i lavoratori e le imprese che intendono utilizzare la modalità di lavoro agile". Cioè tutti i contratti. Anche quelli territoriali. Anche quelli aziendali.
L'esame in commissione ha migliorato, di molto il testo (è sparito il riferimento ai contratti collettivi, è stato eliminato il riferimento alla flessibilità, sono stati espunti alcuni assurdi obblighi di protezione dei dati trattati posti in capo al lavoratore, e così via), ma nel complesso il senso del provvedimento non cambia.
Ecco che, allora, prende senso anche l'introduzione di queste disposizioni all'interno del testo in commento: il lavoro autonomo - in un contesto economico di partite Iva che sono in realtà dipendenti mascherati - assume qualche colorazione (e minima tutela) del lavoro subordinato, senza che da tale involuzione siano esclusi i professionisti iscritti ad albi, per i quali infatti si sente la necessità - nella delega - di inserire alcune sconnesse previsioni di stampo previdenziali e assistenziale; il lavoro subordinato, flessibilizzato, decontestualizzato, privato di molti dei suoi tradizionali diritti, si avvicina all'autonomo, anche - se non soprattutto - per la sempre maggiore espulsione del dipendente dal contesto aziendale.
Per dirla in altri termini...
Non sono mancati, anche in passato, i corifei del governo. Il Foglio: "più che un modo per superare i limiti del telelavoro (che non è mai decollato) [il lavoro agile] è un’opportunità di rivedere l’approccio al lavoro. È necessario indubbiamente... uno sforzo ulteriore innanzitutto agli attori del sistema di relazioni industriali, cui spetta il compito fondamentale di compiere un salto culturale e metodologico di approccio al lavoro che di certo non è nella disponibilità del legislatore”. E quale sarebbe questo nuovo approccio? Lo scopriamo grazie al Corriere: "il lavoro agile ha poco a che fare con il vecchio telelavoro. Il punto non è se si lavori da casa, dall'azienda o da qualunque altro posto. Il punto è che ciascun dipendente viene valutato per i risultati che porta. Indipendentemente da quanto e da dove lavora".
Io ci ho anche lo slogan. "Lavoro agile: tutti più (c)ottimisti".
Ce l'ho anche per altre forme di lavoro molto moderne: invece che #lavoltabuona, #stavoltaèunbuono. Da utilizzarsi, ovviamente, nel caso in cui si abbia un datore di lavoro un po' arcaico e paternalista, che usa i voucher, oppure uno più moderno e sfidante, che paga direttamente in buoni pasto (essendo, magari, un supermercato).
Di questo, al solito, i sindacati non sembrano preoccupati.
Forse, col tempo, hanno cambiato mestiere.

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