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sabato 21 maggio 2016

Palmira

Con congruo ritardo (ma il testo è lungo e io, fra altre mille cose, non sono neppure un dattilografo) volevo celebrare la ripresa di Palmira da parte delle truppe siriane e russe.
Ho scelto questo testo, sia per la sua intrinseca bellezza artistica (motivo per cui l'ho riportato per intero: si tratta di un capitolo di questo libro), sia per le fini notazioni archeologiche e architettoniche, sia - soprattutto - perché rende in pieno tutto il fascino di questa città incredibile, permettendo così - a un tempo - di aumentare il rammarico di ciò che abbiamo perso, ma anche di farci comprendere appieno il perché di tanto accanimento.


Et sola in sicca secum spatiatur arena
Virgilio, Georgiche, l, 389

Pel cielo dalle molte torri! (il Corano, LXXXV, I)

Palmira, a volte mi sembrava d'esserci già stato, per quanto avevo letto delle sue rovine, studiate le sculture nei vari musei del mondo, ma non mi sarei potuto rassegnare a non vederla sul vero. Tuttavia non è un viaggio da nulla, quasi trecento chilometri da Damasco e, come potei vedere, più di tre quarti senza strade, nel deserto. Speravo che in periodo di Fiera internazionale, e con vari italiani sul posto, fosse possibile di dividere il costo notevole del viaggio in automobile: fu speranza vana. L'italiano all'estero non pensa che a mangiare, per dire – con ragione il più delle volte – che si mangia male, farsi vedere dai connazionali in locali di lusso, cambiare vestiti. Una signora madreporica all'ultimo momento pensò di dovere aver paura di stancarsi, consigliata da un altro connazionale anziano, vanesio come si conviene all'italiano fatuo, scapolo e professore d'università. Gli mancava solo la barba a quest' imbecille, per compiere il ritratto della propria insulsaggine: parlava del viaggio a Palmira come di un viaggio nell'ignoto dell'autista come di un pilota di Suez, del deserto come di un mare tumultuoso di sabbia. Avrei dunque visto il deserto di sabbia, come nei film: e l'avrei visto da solo, perché, con l'incoraggiante prospettiva del professore, nessuno si mosse.
Alle quattro e mezzo di mattina si partì. Appena usciti da Damasco la campagna, ancora oscura sotto il cielo altissimo, ricordava la campagna fitta di alberi verso Nocera dei Pagani, a Napoli, quando si lascia la strada di Pompei e la valle, stringendosi incontro a Cava dei Tirreni, rigurgita di verde, sovrapponendosi a tre piani, più alto di tutto quello dei noci. Vedevo le groppe dei meli e, sotto, un verde arruffato. Ma durò poco e poco durò la strada asfaltata. L’autista non capiva quasi una parola delle lingue in cui bene o male potevo esprimermi, e per fortuna non tentò neppure di accendere la radio. Parlava col figlio giovinetto che s’era portato e che, quando l’avevo visto, mi ero sentito sollevato da un certo peso: perché fare quasi seicento chilometri nel deserto con uno sconosciuto, siriano per giunta, nel periodo del Canale di Suez, quando non si sa mai da che parte si mette il vento, e se per caso da un momento all’altro non ti trovi in mezzo a un pogrom sul tipo di quello fatto dai turchi ai greci di Costantinopoli, pochi mesi fa, tutto ciò non prepara proprio a una gita di piacere. L’innocente presenza del figlio mi metteva allora l’animo in pace.
Sopravviene a me, soprattutto se percorro regioni sconosciute, una forma di continuato colloquio in cui riconosco il miglior frutto del viaggio.
Il gusto del viaggio, ha scritto da Goethe, non consiste nell'arrivo ma nel viaggiare: ed è sentenza, come gliene scappava, ovvia e profonda, che il  nostro tempo, preso dagli insulsi viaggi in aereo, non giunge più a comprendere. Il viaggio in aereo abolisce il viaggio, non è che uno spostamento. Ora dite a un albero di passare istantaneamente dai fiore al frutto, e vedrete se vi dà retta. Il viaggio in aereo è questa distanza raccorciata dal fiore al frutto, questo sconsiderato porre l'accento sull'arrivo invece che sul viaggio. Ma togliere il viaggio come distanza effettivamente percorsa sulla terra o sul mare è abolire il viaggio, è vivere superficialmente in un mondo opzionale che ti si affaccia indifferenziato dal giro dell’orizzonte: Roma, Parigi, Damasco, Palmira, non sono altro che bersagli per codesto tiro a segno, che con un colpo solo butti giù. Mentre nulla riattiva la storia come calcare le strade che l'hanno percorsa da secoli, le antiche rotte marinare, le piste. Arrivi, e questo arrivo è come se qualcosa di vivo nascesse: è come se una porta nel tempo si aprisse, ti regala l'impazienza e, al tempo stesso, la fine della tensione dell'attesa: è insomma, una cosa che accade e accade nella tua vita, ti appartiene come la tua mano o il tuo piede.
Un viaggio in aereo non è mai un accadimento tuo, nel senso che lo subisci, come ti siedi e subisci i ferri del dentista. Quando ti alzi da quella poltrona, dopo aver visto la terra capovolgersi nell'arrivo, ti senti liberato e ti trovi sgradevolmente in una città diversa da quella da cui sei entrato nell'aereo, come a svegliarsi. Il tempo passato nel bolide è un tempo che non conta, che non si somma ~ come non si sommano le ore di sonno nel computo delle ore che ti sono appartenute da sveglio.
Ormai s’era proprio nel deserto, ed era piano, liscio quasi, cosparso di una ghiaia così fina e sbriciolata da parere in giardino. Le piste erano vaghe. A un paesetto di quelli impastati col fango, era montato un beduino: senza neanche interpellarmi. Ci s’era fermati, l’autista aveva rimesso l’acqua nel radiatore, il bambino aveva mangiato una fetta di cocomero. Io ero rimasto a guardare una donna che impastava paglia triturata e fango. Era giovane e senza espressione: aveva quel costume, che sarebbe stato assai grazioso, con dei calzoni stretti di pannina a fiori, e la gala in fondo, poi una sottana più corta, la testa fasciata di veli neri. Impastava con gesti sempre uguali e secchi come chi fa la calza, impastava, al modo di venticinquemila anni fa, gli stessi mattoni di fango da seccare al sole per costruirci le stesse capanne basse e lunghe, che sulla costa dei monti sembrano, da lontano, dei gradini sconnessi. Impastava: una donna più vecchia era vigile, in piedi.
Quando si riprese il cammino, erano cominciate discussioni da non finire fra l’autista e il beduino. Evidentemente l’autista non sapeva la strada, il beduino la sapeva, l’autista non si fidava, e via fuori di pista, e poi indietro e poi avanti. Sembrava che appena ritrovata una pista avessero paura di farcisi cogliere. Eppure io non ero in allarme. Il deserto aveva ripreso la sua azione tonificante e io non mi sentivo mai fuori strada. Si andava e in quell'andare stava una ragione così forte per me, come di vedere Palmira. Lontani colli dai colori tenui, fra l’azzurro e il viola, come nel deserto hanno le alture: un uccellaccio del genere di un avvoltoio, che passò battendo le ali così piano che le vidi distintamente quando le chiudeva in giù, come qualcosa che pendesse: nessun’altra vita che quei radi e bassi cespugli che sembrano scopo e non sono. Poi si cominciò a vedere due forme bianche in distanza e che non si capiva cosa fossero, se rocce od altro. Finalmente si erano messi d’accordo, o così mi pareva, che bisognava far capo lì: avvicinandosi, si scoperse che erano enormi serbatoi, come gassometri. Si trattava dell’oleodotto che porta il petrolio dall'Iraq al Mediterraneo. Quel tale oleodotto che gli arabi intendevano far saltare (e l’hanno fatto) se non si dava vinta in tutto e per tutto a Nasser. Inopinatamente comparve anche la linea elettrica e si ritrovarono capre e cammelli, che mai ho visto con così poca roba da mangiare come là. Dall'oleodotto si apriva per poco una pista larga, assai più sconquassata del deserto nudo, e la valle livellata, immensa, senza ondulazioni si stendeva fino a certi lontanissimi monti. A un tratto vidi delle forme lontane come tende molto a punta, vidi delle striature d’un verde intensissimo. Erano masserie nel deserto dove, trivellando, era stata trovata l’acqua e ci avevano seminato subito il cotone, che era verde e già coi batuffoli aperti. Ma le case erano come quelle di Gerico, come quelle cioè che assomigliano ai trulli pugliesi, e solo che quei coni non erano uno o due, ma sei o sette, tutti in fila, e parevano piuttosto i rocchetti di certe vecchie filande. Nuove erano quelle fattorie, ancora in costruzione, e ancora in fattura si videro i mattoni crudi di fango e paglia. Il verde del cotone era rigoglioso come una fanfara. Poi riprendeva il deserto più magro e, dopo un poco, un’altra masseria, finché scomparirono del tutto. Le montagne invece si avvicinavano, si rinforzavano, perdendo l’azzurro ritrovavano colori forti, dall'arancione al viola, degradando da una parte e dall'altra, formando un valico. Nell'ampia incavatura, approssimandoci, apparve una torre diruta e poi altre, come calassero delle balze. Erano torri solitarie, non rilegate con mura, dall'una all'altra si vedeva nitido il declivio che scendeva. Erano torri rossastre, come rossastra era la roccia di quei monti, erano le torri mortuarie di Palmira.
Sembrò di passare per uno stretto, e s’accentuava il senso come di fondo prosciugato del mare, che suscita il deserto. Di qua e di là mozziconi di torri continuavano, ma anche qualcuna alta quasi, quasi intatta, di forme pure. In fondo si alzarono le file di colonne. Ma prima, avanti a tutti, su un colle a punta, un castello arabo, scapitozzato, dagli spigoli vivi come un cristallo. La china ripida, quasi a picco, tagliava il cielo. Improvvisa, foltissima, appena contenuta in un muro incerto, una distesa di palme e di ulivi, ma d’un verde così intenso che era più azzurro che verde.
Su quella vegetazione contenuta ma violenta, il cielo si tendeva come gonfiato dal vento. La città assurda e straordinaria, che godé di una potenza quasi inconcepibile – arrivò sino all’Egitto – era riapparsa, porto asciutto di sabbia per le dondolanti navicelle dei cammelli, emporio di merci lontane. Tutto il panorama, nel suo perimetro antico, s’abbracciava con un’occhiata, il Tempio di Bel, e la Via colonnata, l’Agorà, il Teatro: tutto era chiaro come in un plastico, e invece stava sotto gli occhi nella sua realtà e per un’estensione che non si riusciva a definire, perché non c’era una misura reciproca fra i monti e le colonne.
Per prima cosa volli vedere le tombe: bisognava camminare ed era bene scegliere le ore meno bollenti. Questa storia delle tombe di Palmira credo che sia quasi unica nell’antichità. Furono, i palmireni, i primi impresari di pompe funebri, i primi a concepire la costruzione e la vendita di tanti tombarelli sovrapposti; e, non contenti di scavarli, li costruirono in altezza. Questa è l’origine, d'altronde oscura, delle tombe mortuarie a quattro o cinque piani. Inutile dire che in una città che si reggeva tutta sul commercio, c’era anche lo speculatore che comprava in blocco dal costruttore, e poi vendeva a strozzo i loculi a chi ne aveva bisogno. C’è i documenti di tutto questo, come pure dei banchetti funebri ai quali era inteso che partecipassero anche i morti: in fondo poteva essere una comoda credenza per non rattristarsi troppo.
Intanto, mentre ci avvicinavamo alla tomba detta dei Tre Fratelli, notavo, e mi era sfuggito in principio, che da quella parte la natura della montagna cambiava, perdeva il rosso, le rosicchiature; apparivano colline tondeggianti che facevano l’effetto di una negativa, in quanto che invertivano i colori come si è solito vederli: un grigio come di piombo era su tutte le parti più sporgenti, mentre un giallo soffice e paglierino appariva negli incavi dei burroni fino alle parti più basse. Era sabbia, era la famosa sabbia che non avevo incontrato finora e che il vento accumulava nelle parti cave, mentre spazzava via da quelle in risalto dove rimaneva a nudo la pietra color d’argento. L’effetto, anche dopo spiegato, mi rimaneva sempre esotico: e poi capii il perché. Quelle montagnole assomigliavano ai gatti siamesi, era lo stesso punto del giallo, e quasi lo stesso quello oscuro fra il piombo e il carbone. Ma soprattutto era la stessa inversione che fa così esotici i gatti siamesi, abituati come siamo ai nostri gatti che hanno in genere la mascherina chiara su fondo scuro, la punta della coda chiara, i pedalini bianchi, come i cavalli, ma non tutto il contrario come i siamesi. Allora le montagne che sapevano di gatto furono un nuovo fascino di Palmira.
L'ipogeo, troppo restaurato, che sembra spalmato di ricotta, reca i tre sarcofagi identici che gli hanno valso il nome dei “Tre Fratelli”. L’identità dei tre sarcofagi mi colpì: era come se fossero stati eseguiti col pantografo. E ripetevano quelli bellissimi del Museo di Damasco. Ma con quanta minore finezza. Però, proprio questa minore finezza che faceva il paio, evidentemente, con la lucrosa imprese delle pompe funebri, riproponeva la domanda sul rapporto con le sculture di Gandara, producendo il solito intrigo di date impossibili. Lo riproduceva sul vivo, perché, contrariamente ai due apollinei sarcofagi di Damasco, qui le pieghe, trattate sempre col taglio ad angolo retto, si disponevano con inerzia come i fili di una collana, come le onde che si formano nell'acqua ferma se ci si butta un sasso.
E io pensavo a questo modo quasi fatale che hanno di cristallizzarsi, a un certo punto, le più alte tradizioni plastiche: quasi fatale, perché dipende solo dall'altezza dell’ingegno se qui si assiste solo a un’operazione da marmorari irresponsabili, e là si resta col fiato sospeso, quando quei cerchi concentrici, quelle striature papillari si producono a Gandara o in Agostino di Duccio. La mia recente ammirazione per i sarcofagi di Damasco rimaneva tuttavia scossa dall'attestato di una produzione in serie così sfacciatamente identica, che c’è da dubitare davvero se perfino i volti non furono prodotti su due o tre o quattro tipi, come le maschere del teatro greco. Le pitture dell’esedra in fondo, tutte con gli occhi coscienziosamente sfregiati, si mantenevano assai più nella scia della pittura romana, anche se è da porsi nel conto un’infiltrazione partico-iranica da Dura Europos. I ritratti, nei tondi, avevano il fondo di cielo: ma più inattesa, nella spalletta dell’arco, la figura in piedi di una matura matrona col bambino in braccio: e pareva la Madonna, e non lo era.
Si risalì dal dromos in pendio, e la verzura azzurrognola delle palme che straripavano dal muretto sembrava, così a contatto di gomito col deserto, il giardino fatato di Alcina. Grossi grappoli di datteri rossi come prugne o gialli e tondi quasi come nespole, in tutto diversi da quelli che si trovano nelle scatole, d’inverno, sembrano piuttosto mammelle gonfie, mi convincevano dell’immediatezza con cui si proponeva a simbolo, per una religione che elaborava i suoi riti e i suoi miti, la palma, fino almeno a Giustiniano. Vicino alle palme c’è una sorgente solforosa che i romani captarono fin dentro la roccia: e ancora ci si può scendere. L’antro lungo e luminoso aveva un’acqua verdina, lucidissima, in cui si tuffavano dei bambini arabi, e quanto allegri: parevano davvero ranocchi più grandi. Sembrò quasi la grotta azzurra, e il leggero odore di zolfo non so perché stava bene, intonava col deserto.
Risalendo, riprendeva il fascino del contrasto si quel verde con la lontananza dell’orizzonte che svaporava in riflessi madreperlacei, e le montagne come gatti siamesi grandi più delle sfingi. Poi fu la volta delle torri. In quelle conservate c’è, a metà altezza, un arco quasi come una tomba fiorentina del Quattrocento, col sarcofago e, una volta, la statua giacente. In genere c’è sotto l’iscrizione in greco e in aramaico, che era la lingua – semitica – parlata dai palmireni. Dentro la torre, che aveva la porta coi battenti di pietra, c’è altri sarcofagi e loculi da gente più povera, sovrapposti come scansie: scansie piene di morti. Naturalmente, sculture non ce n’è quasi più. Sono quelle che trovate a Costantinopoli, a Londra, a Parigi, in America. Il saccheggio di Palmira forse non ebbe paragoni. Poi dal pianterreno si sale, con un’elegante scaletta nello spessore del muro, al piano superiore dove si ripete la teoria delle scansie, e così via fino al tetto, se tetto vi era, o terrazza. Di cima a queste torri, soprattutto quella detta di Giamblico, il panorama mantiene la sua struttura eccezionale: le torri, così qua e là, sembrano in movimento e che non si debbano mai ritrovare al solito posto.
Il Tempio di Bel era, sull'Acropoli, il punto capitale della città. Un ampio peribolo a doppio ordine di colonne lo circondava. Questo peribolo per un caso assai raro (serviva da fortezza agli arabi) è per buona parte intatto, e con le sue lesene corinzie che lo ritmavano all'esterno, incredibilmente, quello a cui fa pensare, è alle pilastrate di Michelangelo sul Campidoglio. Così alte come sono, così nobilmente scandite, sull'alto zoccolo che dall'esterno stacca l’Acropoli dal resto pianeggiante della città. All'interno, l’incredibile disordine in cui si trova, con tutti quei rocchi di colonne e le pietre alla rinfusa, spenge un po’ l’entusiasmo: ma la grandiosità delle proporzioni e dell’impianto, il cospicuo numero delle colonne ancora in piedi finisce per imporsi. Al Tempio, che ha la cella completa e una buona parte del colonnato, si accedeva per una scala: l’ingresso del Tempio è sul lato e asimmetrico, ma certamente per ragioni rituali. Di qua e di là dall'altissima porta ci sono ancora vari frammenti del fregio, scolpito dalle due parti. E queste finalmente sono sculture non mortuarie, non in serie, ma fatte una volta per sempre. Da esse ebbi il bandolo della matassa. Si trovarono a Palmira due culture figurative diverse, che non potevano integrarsi senza neutralizzarsi l’una con l’altra: la tradizione partica, assai più collegata alla cultura achemenide che a quella greca, la tradizione imperiale romana. Il gusto del bassorilievo schiacciato, modulato quasi impercettibilmente in superficie non era né greco né romano: il gusto delle pieghe scavate in profondità, per dare uno spessore alla modulazione plastica delle forme, era stato greco e si trasmise a Roma. Questa modulazione, a contatto delle stiacciature iraniche fu ancestralmente riportata quanto più possibile al valore di linea che, sottile come una cicatrice, operava la sutura fra le varie zone ondulate o piatte del rilievo. Scaturì, presso i palmireni, quello smusso a spigolo vivo che non fa solco ma gradino e che si affida non all'ombra, come l’incavo greco-romano, ma alla luce che rimanda di taglio: donde l’estrema chiarezza, la innegabile solarità della scultura palmirena. Si otteneva, con tale procedimento, che la struttura della statua pensata in modo volumetrico e squadrato, quasi cubico, fosse poi tradotta nell'estensione della superficie come un bassorilievo: le varie facce del volume espresse in chiave di bassorilievo piatto. Così ora vedevo la coordinazione quasi logica , oltreché figurativa, di quelle mani squadrate ad angolo retto, di quei nasi a parallelepipedo, che lì per lì meravigliano ma non detonano, anche nei bellissimi sarcofagi di Damasco. Dove non c'è l'ammatassarsi delle pieghe a favorire la modulazione in fili di luce, ritornava come nelle mani, crudamente, la struttura squadrata, sumeriana, assira della figurazione plastica.
Ma la raffigurazione più attesa di questo fregio riguarda le donne velate in corteo: tutte ravvolte nella palla, mostrano la testa a uovo, striata come un’impronta digitale, fanno terribilmente pittura metafisica, manichino insomma. Basterebbe quell’invenzione, perché d’invenzione figurativa si tratta e non di una supina trascrizione dal vero, per dimostrare sia la qualità non certo mediocre dell’artista, sia il valore puramente lineare luministico delle pieghe. Infatti nelle donne velate l'andamento a impronta digitale costituisce un sinuoso arabesco sul piano che non vuole produrre o suggerire oggetto alcuno.
Fu all’improvviso, rivoltandomi verso l'ingresso, che mi si ripresentò l'augusto perimetro del peribolo: da due sbrecciature in alto si aveva l'affaccio, da un lato sulle rovine della città., dall'altro sull'oasi. La strada a colonne si vedeva quasi d’infilata, con i fusti color ruggine, contro i monti color ruggine e invece, a terra, la polvere color di cenere. Dall'altro lato le palme azzurre contro i coll i che parevano soffici nei loro colori di gatto siamese. E il cielo era sempre più chiaro nell'arsura del sole.
Quella che da lontano sembrava cenere non è polvere, ma sabbia che il contrasto con la pietra roggia faceva divenire grigia, quasi cerulea. Sabbia che ricopre di già quel che una volta era stato rimesso in luce, cosicché invano si cerca di capire come fosse l’esedra prima di arrivare all’Arco trionfale. Questa strada, che dovette essere lunga più di due chilometri, con i portici di qua e di là e ancora con moltissime colonne in piedi, aveva ogni tanto dei diversivi lungo il percorso. Doveva arrivare fino al Tempio di Bel, sebbene non proprio di fronte, e per questo faceva un angolo secco: si rettifica all’Arco di trionfo, che a sua volta presenta un accomodamento per poter avere la mostra in asse dalle due parti della strada. Sembrerebbe dunque che non si possa negare che l'arco funzioni da clausola prospettica, che lo scopo urbanistico della Via porticata sia quello di raccordare a sé le varie parti della città: raccordare, ma certo non distribuire, nel senso che ognuna di queste parti resta a sé. Si produce insomma qualcosa di simile che a Leptis Magna (come epoca non ci corre molto), dove lo snodo che qui dà l'arco è offerto dalla piazza pentagonale, e l'ingresso al Foro e alla Basilica li mette solo in comunicazione, ma non in rapporto spaziale con la via porticata. A Palmira è tipico, ad esempio, il raccordo con il Teatro che ha la scena di tergo alla via, ma a cui dalla via si giunge per un’arcata di qua e una di là che immettono in un portico torno torno alla cavea. Questo Teatro, su cui il Rostovtzeff ha dei dubbi che fosse un teatro è proprio un teatro, e la scena, ridotta ora a un sol piano, ricorda, con l'esedra circolare in mezzo, quelle dl Leptis e di Sabratha. Poi il Senato e l’agorà costituiscono altri nuclei a sé, a cui si arriva dalla Via porticata, ma che non compongono con questa. Di nuovo la via s'interrompe a un certo punto sul cosiddetto Tetrapilo, che è una specie dell'Arco di Giano a Roma, ma con i soli piloni senza gli archi: e recava, fra le altre statue, quelle, naturalmente distrutte, della famosa Zenobia e del consorte. Oltre al Tetrapilo la strada continua fino a una specie di tempio, che in parte ha ancora li frontone e invece è una Tomba grandiosa. Ci si può figurare che questo itinerario, orgoglio della città, meraviglia delle carovane, si possa ora percorrere facilmente: invece, dato l'indescrivibile abbandono in cui sono le rovine di Palmira, è tutto ingombro di colonne cadute, di pietre. Insomma, questa, che è la più bella via e la più lunga che ci abbia lasciato l'antichità romana, va fatta sempre con gli occhi a terra e scavalcando ostacoli: per vederla bisogna fermarsi. Ciò che finisce per neutralizzare l'effetto anche della stupenda teoria di colonne. Pero ci si convince a poco a poco che non nel disporsi prospettico questa strada conclude il suo valore: è chiaro anzi che, se anche non componeva con gli altri complessi, tuttavia si articola in quegli ingressi, si succede gradualmente, e pertanto non basta affacciarsi all'inizio, come sulla soglia di una prospettiva teatrale. Se la facciata dell’Arco trionfale ruota su un lato per presentarsi di prospetto, si deve intendere piuttosto come un espediente per restituire al tronco della strada, con un fondale in asse, il senso di spazio chiuso, come a un'Agorà stretta e lunga piuttosto che quale una clausola prospettica. Insomma, non bisogna lasciarsi fuorviare dal fatto che per forza la strada porticata istituisce una prospettiva in profondità: non è nel rapporto al punto di fuga all'orizzonte che è intesa, ma proprio nella suddivisione in tronchi che concludono ognuno separatamente, anche se la strada continua. Questo è il senso dei “nobili interrompimenti” sia l'Arco di trionfo o il Tetrapilo, e sia infine la chiusura del frontone della Tomba a tempio. Del resto tutto ciò quadra con quel che si conosce della urbanistica antica, tanto greca che romana: è solo che qui, come a Leptis Magna, è dato cogliere il momento in cui il tema spaziale predominante nell'epoca più propriamente classica, da essere la spazialità esterna, comincia a trasferirsi al tema dell’interno, ossia al all'esterno che si viene a pensare come interno.
Chiudendo l’Agorà entro mura porticate, a cui si accede da porte come a una basilica, già si tende ad assimilare uno spazio esterno a un interno: per questo anche le varie sezioni della Via porticata concludono ognuna separatamente, a Palmira. E certo questo fatto non si è prodotto solo a Palmira e a Leptis Magna, ma in questi luoghi, sia per la maggiore conservazione dei monumenti, sia per la maggiore libertà con cui gli architetti trattarono il tema, è più visibile. I grandi architetti bizantini sapranno trarne partito, così come faranno tesoro delle specifiche infrazioni alla sintassi architettonica classica. Le quali tuttavia, a Palmira, sono assai meno pronunziate che a Leptis. In questo c’è uno iato notevole fra sculture e architetture. Non c'è nulla, nell'architettura, che possa paragonarsi al sovvertimento plastico che rivela il trattamento delle pieghe della scultura palmirena. L’infrazione più grave è il fatto che le colonne, tutte indistintamente, portino una mensola al bel mezzo dell'entasis. E le mensole dovevano recare statue: di mercanti, di capocaravana soprattutto. Era una fiera delle vanità come neppure le nostre elezioni eguagliano. Il corpus, delle iscrizioni palmirene ce ne dà esempi notevoli. E certo più ci si pensa alla vita di questa città emporio, collocata in un deserto e tuttavia ricchissima, potentissima, non sembra vero, si direbbe una favola: ma è là, Palmira, con le sue rovine, ad attestare che fu vero. Queste colonne con la mensola sarebbero state impensabili per i greci, ma dovevano essere barbare anche per i romani: tuttavia, se il nesso plastico indubbiamente è vizioso, finiva però per accentuare il parallelismo del vano esterno col vano interno, in quanto che le sporgenze delle mensole e delle statue rappresentano un addentellato del vuoto libero della strada o del cortile alle strutture piene dell'architettura. E una specie, insomma, di felix culpa, se si riguarda sotto l’aspetto della progressiva presa di coscienza di dove la disgregazione della forma classica doveva finire per parare.
Così mi ero seduto all'ombra di una colonna, investito a tratti da una folata di sabbia e di vento, ma fresco, sotto il sole ardentissimo e ormai a picco. Di tanto in tanto passava un cammello con un beduino accovacciato sopra. Attraversava le rovine con quella indolenza pari alla grazia che ha il cammello quando cammina: bestia che non si sa mai di quante bestie sia fatta. E ha la testa da uccello, e il collo da serpente, e le gambe come di trampoliere: ma di brutto, solo i piedi, non già la gobba che è come un frammento di paesaggio trasferito sul dorso. I piedi invece sono grandi, patatosi, come quelli di un vecchio cameriere, e la cura con cui li discendono sul suolo è proprio di chi si vorrebbe levare le scarpe e ristorarsi coi saltrati. Eppure io non capisco perché non mettono anche in Italia. Non mangiano nulla, vivono veramente di niente. C'è tante isole e isolotti dove starebbero benissimo, sarebbero un’attrazione: e con quel che costa la lana di cammello diverrebbero una fonte di ricchezza. Non esiste poi zona arida dell’Appennino dove non trovassero cento volte di più da pascolare che nel deserto: e sono bestie mansuete, e con quel sorriso di presa in giro che lì per lì sconcerta. Passò un branco di pecore con la testa, nera, un asinello con un ragazzo che teneva stretto al petto il fratellino: era tutto il movimento di Palmira. Ormai dovevo muovermi, bisognava mangiare e pensare al ritorno. Mentre mi avvio all'albergo che è stato costruito margini della zona, quasi davanti al piccolo Tempio di Baal, vedo che sono stati fatti nuovi scavi: da una parte e dall'altra del tempio sono venuti alla luce due grandi cortili porticati e stanno rimontando delle colonne così basse e tozze che sembrano sacchi di grano. Saranno forse giuste? Non era meglio cominciare a mettere un po' d’ordine nella Via colonnata? Così pensavo, e alla fortuna -  per Palmira – che sia abbastanza lontana per impedire che la Fiera di Damasco si trasferisca là per qualche musica di fortuna.
Una sola musica vorrei sentire io qua, sebbene non ci abbia nulla a che fare, visto che ha perso da tempo anche il titolo che giustifica il mio desiderio. Nel piccolo teatro vorrei sentire la sinfonia dell'Aureliano in Palmira, che è poi quella del Barbiere. Certo la musica di Rossini così scherzosa e liquida, perennemente fresca, qui in questo deserto rovente non troverebbe eco, la beverebbe tutta la sabbia, neanche un suono arriverebbe agli orecchi. Nulla di meno romano, di meno archeologico, di meno storicamente evocativo della tremenda punizione che Aureliano inflisse alla città, dopo che per la seconda volta Zenobia s'era rivoltata. Dunque è un desiderio insensato il mio e la Sinfonia del Barbiere è ormai quella del Barbiere e giustamente di Palmira se n'è cancellato anche il nome. Non importa. Quella sinfonia è l’ultimo appello poetico della distrutta Palmira: il resto è storia, archeologia, è sapere. La sinfonia non è sapere, e Palmira ci sta dentro allo stesso diritto che il Vesuvio nella Ginestra.
Il ritorno, cominciato nell'ora più torrida, popolò l'orizzonte di bellissimi miraggi. Continuamente si aprivano golfi e laghi, c’era acqua dappertutto. E quel che vuol dire l'insensibilità al paesaggio, la mancanza di un abito all'osservazione: risultò che il conducente non se n’era mai accorto. Quando di fronte al più spettacolare di questi miraggi io volli fermarmi un momento e guardare col binocolo, per quanto non capissi quello che diceva, una volta forzato a vedere anche lui. divenne tutto elettrizzato e parlava fitto fitto al bambino. Si vedeva uno di quei serbatoi dell’oleodotto che si rifletteva in pieno, e dato che era bianco e perciò più appariscente, l’illusione dell'acqua era assoluta anche a occhio nudo. Questi miraggi continuarono fino a una certa or. del pomeriggio, quando rinfrescò smisero. E invece i monti presero allora una tinta più accentuala di malva, con una nitidezza che hanno solo le cose a portata di mano.
Era buio ormai, quando si ritrovò la strada: il cielo tornava quello del mattino allorché si era partiti, e ritrovandolo non mi pareva vero che solo un giorno fosse passato, o quasi che il giorno l'avessi trovato forando un’unica notte, in fondo alla quale, come in fondo al tunnel della storia, stava sola, integra e distrutta, Palmira.

Comunque, per chi non lo sapesse, o non lo ricordasse, la sinfonia è questa.



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