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lunedì 16 aprile 2018

Qualche riflessione su Siena e il suo groviglio

Siena è, incontestabilmente, la città del "groviglio armonioso", cioè, per alcuni, di un coacervo "di enti, istituzioni, associazioni, uomini che ha fatto nascere il Monte dei Paschi; il Santa Maria della Scala e poi il policlinico delle Scotte; l’ateneo e l’università per stranieri; che ha sostenuto e sostiene la Mens Sana verso i traguardi nazionali ed europei e il Siena verso la serie A"; per altri, di "un intreccio politico-finanziario-istituzionale-culturale" in cui "legami di amicizia, di convenienza politica, di convenienza lavorativa e  di mutuo soccorso tra gli… appartenenti" determina(va) negativamente "la vita sociale e collettiva" della città.

La riflessione su cosa è avvenuto a Siena negli ultimi dieci anni, così polarizzata tra questi due estremi, rischia di condurre o all'acritica archiviazione di uno dei più incredibili fallimenti politico-istituzionali del Dopoguerra, o – all'opposto – alla tentazione di gettare il bambino con l’acqua sporca. Per questo, conscio di avventurarmi su un terreno più che minato, propongo alcune osservazioni di chi di quelle vicende è stato spettatore abbastanza distaccato, vergin di servo encomio e di codardo oltraggio si potrebbe dire.

Contestualizzo la mia posizione. Nel celeberrimo "articolo delle lucciole", un incredibile coacervo di intuizioni profetiche ed errori di valutazione marchiani, Pier Paolo Pasolini definisce il regime democristiano fino al Sessantotto come “la pura e semplice continuazione del regime fascista”; e l’assimilazione, probabilmente senza che l’autore ne avesse piena contezza, avviene non solo sul piano della “tradizionalità” dei valori di riferimento della Democrazia Cristiana, ma anche su quello, politico-economico, del mantenimento ed anzi rafforzamento di quello che Eugenio Scalfari descrive come "il circuito perverso tra DC, aziende di Stato e governo" (v. F. Dezzani).

Lo sviluppo industriale (ma anche politico) italiano del Dopoguerra è passato proprio da questo "circuito". E la parabola del Monte dei Paschi, pur con la sua specificità derivante dalle modalità di nomina dei suoi organi, non differisce sensibilmente dal quadro di insieme. Non a caso, la prima stagione di privatizzazioni, che ha interessato anche il Monte, corrisponde a quella dell’azzeramento della classe dirigente precedente mediante l’inchiesta di Mani Pulite.

Il problema del groviglio, così considerato, non è pertanto un problema di collegamento fra potere politico e istituzioni finanziarie, economiche e culturali, bensì di mancanza di trasparenza in tale collegamento laddove non vi sia, o venga meno, la linearità del circuito democratico. È, in sostanza, la questione dell’alternanza – quella che, a livello nazionale, per primo si pose Aldo Moro – e, in subordine, della efficacia del controllo dell’opinione pubblica tramite il processo elettorale; una questione di politica, non di troppa politica. Chi reagisce brandendo la vulgata neo-liberista, secondo cui l’indirizzo politico deve restare fuori dalle banche, dalle università, dalle aziende partecipate, o pensando a ulteriori privatizzazioni, o idolatrando banche ed autorità indipendenti (cioè legibus solutae), reagisce a mio avviso in modo sbagliato, controproducente e intimamente contraddittorio. "Quando una scuola economica, come quella attualmente predominante…, si sforza di 'sterilizzare' e marginalizzare la politica, siamo [pur sempre] di fronte a un atto politico" (A. Zambrini).

D'altronde, quand'è che il "sistema" inizia concretamente a sfilacciarsi? Quando il Monte diviene una S.p.A., quando all'interno del Gruppo le entità si moltiplicano divenendo sempre più opache, quando le nomine nel C.d.A. sono rimesse alla Fondazione, soggetto formalmente autonomo in realtà feudo di un partito, o di una fazione di un partito. Quando fra indirizzo politico e indirizzo economico si crea una frattura, così che il secondo possa agevolmente fagocitare il primo. Storie simili si potrebbero raccontare per Poste, Telecom, Finmeccanica (Leonardo), e così via.

Questa chiave di lettura aiuta, secondo me, a spiegare in modo convincente anche il disastro senese dell’ultimo decennio. L'acquisto di Antonveneta è la risposta, sbagliata, a un problema concreto, cioè la contendibilità del Monte dei Paschi derivante dal mutato contesto normativo nella seconda metà degli anni Novanta. Dalla privatizzazione, che ha reso l'Ente pubblico una società per azioni. Dal nuovo T.U. bancario, che ha drasticamente la discrezionalità di Banca d'Italia in materia di assetti proprietari delle banche. Soprattutto, dalla liberalizzazione della circolazione dei capitali nell'Unione Europea, che permette ai colossi europei di affacciarsi sul mercato italiano (dando il via a quel processo di concentrazione cui è stato affibbiato il nomignolo di risiko bancario). Tutte scelte che portano il marchio di una certa parte della DC prima e dei governi di centro-sinistra poi, degli Andreatta, dei Prodi, dei Ciampi, dei padri nobili di quel PD ultra-europeista che ancora avvelena la politica italiana.

Una classe dirigente locale all'altezza dei suoi compiti avrebbe tuttavia dovuto comprendere che, venuto meno l'ordinamento sezionale precedente, il mantenimento di un arcigno controllo del Monte a Siena era di fatto impossibile, agendo di conseguenza. Secondo due possibili direttrici alternative: la cessione integrale della partecipazione nella banca, per concentrarsi sulle enormi potenzialità economiche della Fondazione come volano di sviluppo post-bancario; oppure, il mantenimento di una quota piccola ma significativa, da utilizzare in sinergia con altri soggetti per assicurare un controllo de facto della stessa. L’operazione Antonveneta, per le modalità con cui è stata condotta, andava in senso completamente opposto; la folle decisione della Fondazione si indebitarsi nel 2011 per seguire l'ennesimo aumento di capitale, lo stesso. Di questo i dirigenti del PD senese sono storicamente colpevoli senza possibilità di appello.

Se dunque vi è una certezza in vista delle prossime amministrative, è una certezza tutta negativa: "codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo". In positivo, si può solo sperare che queste elezioni siano il punto di inizio di un percorso di alternanza e di dialettica fra posizioni effettivamente differenti in merito alle modalità di sviluppo di Siena e del suo territorio. Perché questo accada, tuttavia, servono tre pre-condizioni difficilmente attuabili.

In primo luogo, sarebbe necessario che alla politica (anche) locale fosse ridato uno spazio effettivo di manovra, al di fuori dei "patti di stabilità", della compressione delle risorse, delle manovre su personale e partecipate. C’è stato chi, nel Partito Democratico, ha accusato il sindaco Valentini di essere un "ragioniere" (il che è vero), senza tuttavia interrogarsi sui motivi ultimi di questa attitudine, sulle pastoie all'azione politica che sono poste dall'Unione Economica e Monetaria, dalle norme del Fiscal Compact, dal pareggio di bilancio entrato come una metastasi nel corpo dell’art. 81 della Costituzione: tutte decisioni cui quel partito ha dato la sua entusiastica adesione.

Secondariamente, dovremmo riappropriarci di un più realistico concetto di democrazia, al di fuori delle mistificazioni del "politicamente corretto". Per conservare "lo stato e la città in pace", senza che se ne abbia Santa Caterina, non serve infatti "attendere al bene comune" invece che "al ben particolare" (S. Caterina da Siena, lettera CCLXVIII), per il semplice fatto che un "bene comune", inteso come "bene di tutti", non esiste, trattandosi - di norma - di un artificio retorico che sottintende il "bene della classe dominante" (non a caso – per restare in ambito cattolico – l’elaborazione del concetto da parte di S. Tommaso nei Dieci libri sull'Etica Nicomachea trova ultimamente consonanze col pensiero delle élites globaliste e transnazionali). Al contrario, lo "stato e la città" hanno pace se tutte le Istituzioni (anche l'Università, anche la Fondazione) si fanno luogo di dialogo fra soggetti esponenziali delle rivendicazioni delle diverse classi sociali, in vista di una sintesi – sempre dinamica e che non  può prescindere dai risultati elettorali – delle stesse. Questo, in passato, la sinistra lo sapeva; da ultimo è invece (consapevolmente?) caduta nella trappola (v. Michéa).

Va da sé che quanto precede pre-suppone che la stampa dia all'opinione pubblica gli strumenti necessari per costruire posizioni anche antitetiche, ma consapevoli. Senza girarci intorno: la stampa, a Siena in particolare ma in Italia in generale, non è "un" problema, è "il" problema. Che può certo essere attenuato dalle risorse della rete (i blog, Facebook, Twitter, non a caso sotto attacco prima con la patetica scusa delle fake news, ora con lo scandalo di Cambridge Analytica), ma non risolto. Io, in materia, non ho soluzioni, soprattutto laddove si consideri che un giornale ha sempre un costo e, pertanto, invariabilmente un editore. Il quale, a sua volta, ha i sui interessi e i suoi spin doctor di riferimento (v. Giacché, La Fabbrica del falso; Foa, Gli stregoni della notizia). Certamente, la pluralità di mezzi di informazione e di testate per ciascuno di essi aiuta la polifonia, ma non garantisce l’obiettività; anzi, forse in questo momento vi è maggiore apertura a Siena che su fogli e televisioni nazionali, la cui credibilità ha raggiunto il suo minimo storico.

Che il 2018 porti a Siena una compiuta democrazia dell’alternanza.

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