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martedì 9 maggio 2017

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Il 5 maggio era l'anniversario della morte di Napoleone (e questo lo sanno tutti coloro che si sono sciroppati l'Ode a memoria), ma anche (dato invece assai meno noto) della nascita di Søren Kierkegaard.
Duplice evento dalle connotazioni infauste che, probabilmente, spiega anche certe mitologiche sventure sportive. Ma non divaghiamo.
Lo spiacevole ricordo del non compianto filosofo danese si è dunque sovrapposto al triste spettacolo dei tempi moderni, in cui - grazie alla clava del vincolo monetario, con i suoi effetti deflazionistici nei confronti dei lavoratori a vantaggio delle classi più abbienti, e della criminalizzazione del debito pubblico - i diritti primari (lavoro e sicurezza sul lavoro, adeguata retribuzione, assistenza sanitaria, diritto all'abitazione, diritto all'istruzione) e sociali (diritti sindacali, diritti di partecipazione, diritti politici non solo nominali), ancorché costituzionalmente garantiti, sono stati sostanzialmente abrogati sia nella prassi legislativa sia nella lotta politica, per essere sostituiti, in entrambi gli ambiti, da quelli che Luciano Barra Caracciolo definisce "diritti cosmetici". Diritti, questi ultimi, tutti volti ad affermare l'assoluta libertà degli individui uti singuli (e, come tali, fondamentalmente nichilisti), e di cui si giovano per lo più proprio le sullodate classi abbienti (che, ovviamente, hanno già totalmente risolto ed acquisito i diritti negati agli altri), sia per appagare i propri desideri, sia - più subdolamente - perché permettono di cooptare possibili "nemici di classe" presentando determinate battaglie come "scontri di civiltà" tra conservatori (normalmente vecchi e non istruiti) e progressisti, oltre che di di illudere le masse sul fatto che dei diritti primari e secondari non si debba semplicemente più parlare, in quanto "diritti acquisiti".
E pazienza se questa impostazione, di fatto, riduce gli spazi di democrazia, essendo ormai passato il concetto hayekiano secondo cui "la democrazia avrebbe un compito... igienico" senza "essere un fine in sé", potendosi la stessa ricostruire come "norma procedurale il cui scopo è quello di promuovere la libertà" senza per questo potersi "assolutamente porre allo stesso livello della libertà".
Così, se l'introduzione in Costituzione del principio del pareggio di bilancio - cardine del c.d. fiscal compact - avviene senza neppure un serio dibattito parlamentare, stante il clima da "fate presto!" ingenerato soprattutto dagli operatori della televisione e della carta stampata, mentre il Jobs Act merita a mala pena una mezza giornata di sciopero (salva poi la ricostruzione di una fittizia verginità, da parte del sindacato, con la presentazione di un quesito abrogativo scritto volutamente coi piedi), ci si batte e ci si accalora per tutto e per il suo contrario: diritto alla maternità o paternità per gli omosessuali (con punte di surrealismo nella polemica fra gay e lesbiche), ma anche completo diritto di aborto; diritto alle più varie forme di unione ma anche al divorzio breve se non brevissimo (fino a forme più simili al ripudio di memoria biblica); diritto alla vita ma anche al suicidio (e tralascio qui i cortocircuiti mentali di chi riesce, allo stesso tempo, a giustificare il velo islamico ed a condannare forme più o meno reali di maschilismo occidentale). Il tutto, in un unico frullatore soprattutto mediatico, in cui - in sostanza - il capriccio di un momento diviene norma per sempre.
Il gioco è anche troppo scoperto: "la distruzione neoliberistica del welfare State si accompagna, allora, sul côté dei costumi, all'aggressione - anzitutto ideologica - ai danni dell’istituto familiare, in nome della precarizzazione integrale delle esistenze e della deeticizzazione, affinché l’individuo sradicato resti completamente solo e in balia delle leggi della competitività universale, mero consumatore sradicato, senza identità e senza storia, senza radici e senza progetti", dice Fusaro. Il consumatore non ha una Patria, non ha una cultura, non ha vincoli: è il mezzo di produzione ideale, con totale libertà di circolazione nel mercato unico.

E però, mi sono detto, qui c'è una contraddizione di fondo.
Da un lato si propone all'individuo un modello di vita in cui ogni desiderio si trasforma in possibilità, dall'altro non gli si danno gli strumenti economici per rendere effettivo questo modello.
Per un po' questa discrasia può essere artificialmente riempito con connessioni internet più veloci, biglietti aerei low cost, abolizione del roaming sulle chiamate internazionali, al limite l'Erasmus. Ma con la continua polarizzazione dei redditi, effetto naturale dell'UE in generale e dell'UEM in particolare, queste cose non basteranno più ed il re sarà veramente nudo.

Ed ecco spuntare Kierkegaard.
Cifra dell'uomo, per il filosofo, è "la disperazione, motivata dalla costatazione che la possibilità dell'io si traduce necessariamente in una impossibilità. Infatti, l'io è posto di fronte a una alternativa: o volere o non volere se stesso. Se l'io sceglie di volere se stesso, cioè di realizzare se stesso fino in fondo, viene necessariamente messo a confronto con la propria limitatezza [cioè, con la propria mancanza di mezzi, N.d.R.] e con l'impossibilità di compiere il proprio volere. Se, viceversa, rifiuta se stesso, e cerca di essere altro da sé, si imbatte in un'impossibilità ancora maggiore. Nell'uno come nell'altro caso, l'io è posto di fronte al fallimento" (così per esempio Mori, Cambiano).
L'uomo cerca di sfuggire alla disperazione attraverso tre stati: quello estetico (cioè amorale ed edonista), quindi quello etico (che però finisce per deteriorarsi nel conformismo), infine quello religioso. Ma l'uomo di oggi ha cancellato la religione e il massimo conformismo è rappresentato proprio da una vita meramente estetica, come richiesto dal mainstream. E l'uomo esteta di oggi, al contrario di quello della teoria kierkegaardiana, non cadrà nella noia, o soltanto nella noia, ma nella rabbia, o quanto meno in una noia terribilmente rabbiosa.
Forse che l'attuale liberismo sta costruendo le condizioni per la sua distruzione violenta?
Forse il tentativo di sostituire il desiderio dell'uomo a qualsiasi altra norma - religiosa o etica che sia - a vantaggio di chi tutto pensa di potersi permettere, porterà dal delirio di onnipotenza alla caduta rovinosa?
Rivedremo una nuova torre di Babele, non solo nelle forme ma anche nell'avverarsi di un simbolo? La hybris che accecava gli eroi tragici dell'antica Grecia accecherà anche i tristi burattini delle élites di oggi, che la Grecia moderna hanno deciso di massacrare? La progressiva dissoluzione dello Stato, propagandata come rimozione di un intralcio alle magnifiche sorti e progressive dell'individuo, porterà invece all'anarchia violenta e alla distruzione dell'attuale sistema socio-economico?

Ci ho pensato, per un po'. Poi, però, ho dovuto concludere che stavo sbagliando. L'uomo è votato all'impotenza e alla disperazione? Sì. L'uomo si ribellerà a questo stato di cose, così alienante? Assolutamente sì. Creerà un "mondo nuovo"? No. Purtroppo assolutamente no.

In primo luogo, infatti, questa terribile rabbia mescolata a noia ed impotenza, con ogni probabilità sarà rivolta verso se stessi, o verso altri riconosciuti come simili a sé. Perché l'io, abbeverato a questo edonismo sfacciato, quando non può realizzarsi, si odia, e odia chi lo rappresenta. La grande abbuffata o Dillinger è morto sono rappresentazioni plastiche di questo amaro finale, filmate da una specie di Kierkegaard ateo e, pertanto, compiutamente nichilista.
Oppure, anche ove sfoci in ribellione aperta, si concluderà comunque a favore delle attuali élites: se si tratterà di ribellione elettorale, mediante l'imposizione di sistemi che mortificano la democrazia reale tramite sistemi lato sensu non proporzionali (in questo senso, anche in Italia abbiamo visto combattere la "cattiva battaglia" per il maggioritario); se si tratterà di ribellione violenta, più limpidamente, con la forza del denaro e delle armi.
E la battaglia, si badi, sarà persa non solo sul terreno del voto o dello scontro, ma anche su quello delle idee. Perché - parliamoci chiaro - a questa noia, a questa rabbia, a questa frustrazione, non fa riscontro alcuna costruzione dogmatica, nessun sistema di pensiero, nessuna impalcatura filosofica, o quanto meno ideologica, che permetta di proporre un'alternativa alla "fine della storia" (questo concetto, dal punto di vista della lotta politica, è stato espresso benissimo da Buffagni su Goofynomics).
Ma, soprattutto, chi perderà sarà lo Stato, inteso come entità politica in cui si confrontano e si compongono i conflitti tra classi sociali. E, se perde lo Stato, perde la civiltà, a favore della legge della giungla, cioè della legge del più forte.
Che non siamo noi.

6 commenti:

  1. Cardine di questo situazione è il senso di vergogna che è diverso dal senso di colpa.
    http://www.guidapsicologi.it/articoli/senso-di-colpa-e-vergogna

    Il male dell'Italia per me è proprio questo, è la vergogna, il senso di inferiorità, che spinge i piddini ad invocare il salvataggio eurista,che permette ai vari Piller&Gumpel di denigrare in Tv il popolo italiano senza che nessuno vi si opponga, che gioisce quando masse di disperati arrivano col barcone pensando che essi saranno in grado di colmare il vuoto identitario di cui sono affetti, e che fa guardare con sufficienza chi vuole prendere le redini del proprio futuro tramite la Sovranità.
    Loro la sovranità non la concepiscono, e non la possono concepire, perché sottintende l'amore per sè e il conseguente rispetto per la propria persona, il rifiuto di ciò che è dannoso e la promozione di ciò che è giusto.

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    1. Sono assolutamente d'accordo!
      Come ben sai, è la famosa Legge di Scanavacca (Tutti=Tutti-1). Che, poi, è - psicanaliticamente - la proiezione del proprio senso di inferiorità sull'altro.

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  2. Analisi da condividere in pieno. Aggiungerei che le elites, grazie al controllo totale dei media, hanno già sterilizzato in partenza ogni ipotesi di ribellione, inducendo i ceti medi sempre più proletarizzati al conflitto sezionale: disoccupati contro lavoratori, giovani contro pensionati, ecc. Sicchè la rabbia e il livore degli sfruttati si possano incanalare contro quei concittadini la cui 'colpa' è quella di avere ancora una lavoro stipendiato o una pensione. Intanto, mentre va in scena quotidianamente la celebrazione dell'accoglienza senza regole e senza criteri verso i migranti, invano cercheremmo un editoriale o solo un commento sul massacro sociale in atto in Grecia, dove i vampiri del FMi e della Commissione europea, con la piena complicità del governo collaborazionista di Tsipras,impongono altri tagli a pensioni, salari e spesa sanitaria. Per i nostri media e per i politici evidentemente la vita di un vecchio o di un bambino greco, poichè non sono 'migranti', non valgono nulla.
    Gianni

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    1. Il "conflitto sezionale" (non so se la definizione già esiste o è sua, ma mi piace) è una delle cifre di questo disgraziato periodo storico. Non so se ha letto le pagine molto significative, sulla questione, scritta da Il Pedante sul suo blog.

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  3. Sono un assiduo frequentatore del Pedante e di 48, cioè Luciano Barra Caracciolo, ed è da lui che ho ripreso la definizione di conflitto sezionale. Purtroppo è proprio un periodo oscuro, e non solo per la infinita crisi economica, ma direi soprattutto sul piano sociale e culturale.

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    1. Nella sterminata produzione di LBC mi ero perso questa definizione che, ripeto, mi sembra particolarmente pregnante. Grazie, Luca.

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