Sull'incontro - il primo di una serie, in vista della Conferenza di Roma del prossimo 25 marzo, quando le élites europee si autocelebreranno facendo finta di celebrare il Trattato del 1957 e il popolo italiano, auspicabilmente, "di destra" e "di sinistra", le riporterà in modo forte e chiaro coi piedi per terra - si sono avuti vari pezzi giornalistici. La migliore sintesi mi sembra, però, proprio quella del nostro Primo Ministro, che ha relazionato sui colloqui alla Camera e al Senato.
(Immagini a disposizione con licenza Creative Commons CC-BY-NC-SA 3.0 IT)
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In breve: l'Unione Europea ci ha dato pace (in realtà la pace ce l'ha data la Nato, o - per meglio dire - le migliaia di basi americane sul nostro Continente: ubi solitudinem faciunt, pacem appellant, direbbe Tacito, ma anche il Telegraph); l'Unione Europea ha aiutato alcuni Paesi come la Spagna, il Portogallo o la Grecia ad uscire da dittature fasciste ed altri, dell'est ad uscire da dittature comuniste (invero, la transizione alla democrazia dei vari Paesi mediterranei ha visto, in particolare, un attivismo tedesco - spesso in contrasto con gli Stati Uniti - più volto all'assicurazione di nuovi mercati di sbocco che alla costituzione di solidi regimi democratici: v. qui); l'Unione Europea è un modello di protezione sociale sia in termini di diritti individuali che in termini di welfare (non sto nemmeno a puntualizzare quanto questa affermazione sia in stridente contrasto con l'intera costruzione giuridica europea e in particolare, per restare a cose note, col fiscal compact), l'Unione Europea è una superpotenza commerciale grazie al suo mercato unico interno (basato su povertà e deflazione per molti, ma non per tutti) e così via.
Questo, per quanto riguarda i risultati. Poi c'è la parte più interessante, che attiene invece al futuro, o - per dirla all'inglese - all'agenda "dei prossimi dieci anni" (Gentiloni non sente il peso del tempo, evidentemente).
La banda dei quattro è divisa su moltissime cose, quasi su tutte (ad esempio: l'importanza di politiche di crescita economica; la ripresa degli investimenti e la difesa dei sistemi di protezione sociale; la gestione dei problemi migratori).
Però, mi sembra di capire che converge su due questioni. Primo: una sempre maggiore integrazione di una parte dei Paesi membri e una conseguente marginalizzazione di altri; secondo: questa integrazione deve avvenire anche e soprattutto sul terreno della sicurezza e della difesa.
1) Penso sia molto importante spiegare bene cosa significhi l'espressione - di per sé anodina -"Europa a due velocità".
Partiamo da un presupposto (ammesso dallo stesso Gentiloni): non tutti i Paesi membri dell'UE fanno parte dell'UEM, non tutti i Paesi membri dell'UE applicano Schengen, non tutti i Paesi membri fanno parte della NATO e così via. Dunque, l'Europa, cioè Leuropa, già oggi non è a una velocità, né a due, ma più propriamente a quattro, o cinque.
E allora? Allora va compreso che questa espressione implica la decisione - da parte delle classi dirigenti di alcuni dei Paesi membri dell'UE - di non cercare più né la condivisione delle politiche comuni né la connessa mediazione degli interessi dei diversi Stati (o di diversi gruppi di Stati) del Vecchio Continente, bensì di pre-fissare un'agenda economica, politica e (vedremo) militare, qualificando detta agenda, a priori, come "interesse comune", da portare avanti con chi ci sta, lasciando tutti gli altri ai margini.
Cosa c'è di sbagliato? Molte cose.
In primo luogo, il fatto che si tratta di una decisione non "difensiva", ma "aggressiva": non si tratta cioè di rispondere a resistenze o sabotaggi di alcuni Paesi rispetto alle decisioni già prese in modo condiviso (quello che qualcuno chiama l'acquis comunitario), bensì di forzare la volontà di alcuni Paesi mettendoli di fronte a un aut aut su questioni ancora da condividere fra i partner.
Secondariamente, che questo nuovo atteggiamento è il frutto di una reazione non tanto nei confronti di chi, legittimamente, ritiene di voler lasciare l'Unione, cioè la Gran Bretagna, bensì nei confronti di Stati membri a tutti gli effetti, che hanno il solo "peccato" di essere guidati da governi non omogenei a quelli espressione di certe élite dominanti. Mi riferisco, evidentemente, ai Quattro di Visegrád, in particolare alla Polonia. La più evidente conferma di questa interpretazione è data dalla riconferma alla Presidenza del Consiglio europeo di un politico di mezza tacca come Donald Tusk, voluta fortemente dai vertici dell'Unione proprio per umiliare il governo polacco (e nonostante che questo crei un serio problema di equilibri fra PPE e PS).
Infine, che l'Italia - nello stabilire da che parte stare - ha fatto la scelta sbagliata.
Da questo punto di vista, bisogna intanto prendere atto dell'assoluta impossibilità, da parte del nostro governo, di imporre una diversa politica economico-sociale all'Unione, posto che:
- il nostro governo non ha intenzione di fare battaglie in questo senso (risentite quanto ha detto Gentiloni: è necessario "rispettare le regole e [poi, eventualmente: N.d.R.] cercare di modificare le politiche, affinché l'Europa abbia un ruolo di accompagnamento e non di depressione della crescita economica"; "a Bruxelles deve essere molto chiaro che le riforme in Italia non si sono fermate né hanno rallentato il loro corso, questo sarà formalizzato nel Def");
- l'Unione è stata disegnata, a partire dalla lettera dei Trattati, in modo funzionale all'affermazione di una concezione iper-liberista del rapporto fra economica e politica, soggetti economici privati e Stati, e dunque non può essere riformata, perché se lo fosse sarebbe snaturata a tal punto da divenire altro rispetto agli obiettivi per cui è stata costituita;
- in questo quadro, cui si unisce il venire meno della flessibilità dei cambi a seguito dell'adesione all'Euro, le politiche mercantilistiche di alcuni Paesi che ora si vorrebbero candidare a "leader" dell'Europa a maggiore velocità comportano la rottura di qualsiasi principio di cooperazione all'interno del mercato unico, rendendo inesistenti i fantomatici "interessi comuni" richiamati da Gentiloni ed anzi rinvigorendo l'emergere di nuovi confliggenti "interessi nazionali" (tanto più che il concorrente europeo nel manifatturiero della Germania è proprio l'Italia: vedi qui).
Stando così le cose: qual è l'interesse del nostro Paese a lanciarsi, lancia in resta, in questa folle avventura stando sempre più avvinghiato a questo pseudo-alleato tedesco, soprattutto ora che la volontà tedesca e quella statunitense sembrano di nuovo in rotta di collisione?
2) Integrazione sul terreno della sicurezza e della difesa non vuol dire tanto incremento dei rapporti fra le polizie e le autorità giudiziarie dei vari Stati membri (materia sui cui il TFUE si dilunga già oggi in modo assolutamente soddisfacente agli artt. da 81 a 89 e che anzi ha portato alla creazione di un diritto penale e soprattutto penale processuale europeo che sta aggredendo in modo sensibile gli spazi di autonomia interni), significa creazione di un "esercito europeo".
Questo lo ammettono anche coloro che lo auspicano e lo stesso Gentiloni, che nel suo discorso qui sopra parla del recente "Comando europeo unificato per missioni non esecutive". Tra l'altro, mi sembra interessante notare che proprio nell'ambito della difesa la Gran Bretagna "sta lasciando la UE ma continua la cooperazione con i partner europei", tanto che "in questo mese invierà militari in Estonia e quindi in Polonia", oltre che aerei "in Romania" (così Fallon, Ministro degli Esteri di Sua Maestà).
Ora, in un'Unione unita solo nell'essere assolutamente divisa su qualsiasi questione di politica estera, come mai questo grande amore per un esercito comune? La spiegazione che spesso si legge sui giornali - e cioè del possibile disimpegno di Trump dalla Nato e la preoccupazione per un asserito imperialismo russo - non è evidentemente convincente (non foss'altro che quella di Trump è, in gran parte, ammuina, e l'imperialismo russo semplicemente non esiste). Ugualmente, l'esercito europeo contro il terrorismo interno e esterno è una bufala che, semmai, la dice lunga su quanto raffinate siano le menti - per dirla con Falcone - interessate a certi sviluppi. I motivi, a mio avviso, sono tre.
Primo. Un esercito europeo con lo Stato Maggiore a Bruxelles ma dislocato in tutti i Paesi membri diviene un'arma potentissima quanto meno di dissuasione nei confronti di eventuali governi non allineati, nei confronti dei quali - come ben si vede già oggi - sollevazioni multicolori, con o senza cappellini rosa, sono all'ordine del giorno. Pensa a un'Italia a guida leghista bloccata da manifestazioni di piazza femministe, antifasciste, sudiste, ecc. ecc., e un governo che non può utilizzare liberamente né la polizia né i carabinieri né l'esercito. Immagina, puoi.
Secondo. La Wille zur Macht delle élite tedesche che si sta spostando dal campo economico a quello militare in modo direttamente proporzionale alla sempre maggiore rimozione, anche per motivi di distanza storica, di quanto accaduto durante il Nazismo. Fino, addirittura, ad immaginare l'inimmaginabile, cioè la costruzione della bomba atomica. Che richiede, tuttavia, molto più tempo del mero passaggio di consegna dei codici delle bombe atomiche francesi (o anche inglesi, visto quanto sopra). La vicenda dell'Euro dovrebbe insegnare qualcosa su come la Germania intende il concetto di collaborazione, soprattutto rispetto alla Francia.
Terzo. Il mercantilismo tedesco vive di compressione della domanda interna ed espansione di quella estera, mediante esportazione massiccia soprattutto di beni manifatturieri. Da questo punto di vista, il mercato degli armamenti è perfetto. Non è un caso che proprio di recente sia stato presentato in pompa magna un libretto, redatto da noti economisti diciamo... europeisti, tutto teso a dimostrare la necessità di una più stretta integrazione in campo militare, anche e soprattutto per le ricadute economiche degli sforzi pre-bellici (e bellici).
Fantasie? Così scrive - per esempio - il Post.it: "circa il 15% delle esportazioni tedesche di armi... [nel] 2012 sono state inviate alla Grecia, e quasi il 10% di quelle francesi... Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute, la Grecia ha continuato a comprare grandi quantità di armi da entrambi i paesi anche tra il 2010 e il 2014, gli anni peggiori della sua crisi economica. Durante questo periodo, il governo di Atene ha acquistato attrezzature militari per un valore pari a 551 milioni di dollari dalla Germania e pari a 136 milioni dalla Francia. Già nel 2010 un articolo sul Wall Street Journal sosteneva che Francia e Germania avessero imposto l’acquisto di sottomarini, navi, elicotteri e carri armati come condizione per sbloccare il piano di aiuti alla Grecia: non emersero prove e i governi smentirono rapidamente queste voci. Quello che è noto è che dal 2004 al 2009, durante il governo di Kostas Karamanlis del partito di centrodestra Nuova Democrazia, la Grecia acquistò dalla Germania 170 carri armati panzer Leopard per 1,7 miliardi di Euro e 223 cannoni dismessi dalla Bundeswehr, la Difesa tedesca. Prima della fine del suo mandato Karamanlis ordinò anche 4 sottomarini prodotti dalla ThyssenKrupp. Il successore di Karamanlis, il socialista Papandreou, congelò l’acquisto e rifiutò di farseli consegnare: dopo aver ordinato una perizia tecnica sui sottomarini, che evidenziò problemi strutturali, a marzo del 2011 fu costretto a trovare un accordo che impose l’acquisto di due sottomarini al prezzo di 1,3 miliardi di euro e di altri 223 carri armati panzer per 403 milioni di euro". Potrebbe essere un nuovo ramo, visto che il vecchio inizia ad apparire quasi irrimediabilmente tagliato, come dimostra in modo sufficientemente icastico il grafico qui accanto.
L'Unione Europea sta franando. Dal bunker di Bruxelles, tuttavia, si cerca di depredare il depredabile, prima dell'ovvia conclusione.
Il fatto che sia ovvia non la renderà né meno tragica né meno dolorosa.
Semmai, il contrario.
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