Cerca

Pagine

giovedì 2 febbraio 2017

L'educazione finanziaria e chi ne ha davvero bisogno

Si è molto discusso in questi giorni sull'emendamento al D.L. salva-banche in corso di conversione al Senato, prima concordato col governo, poi bocciato per mancanza di copertura, relativo alla così detta "educazione finanziaria".
I giornaloni si sono stracciati le vesti: siamo l'unico Paese occidentale ancora privo di una normativa specifica in materia; è necessario che gli italiani sappiano "compiere scelte consapevoli in materia di risparmio, analogamente a quanto accade per l’educazione alimentare, sanitaria o sessuale"; l'alfabetizzazione finanziaria è particolarmente bassa in Italia, addirittura penultima tra i paesi Ocse secondo il solito sondaggio ad hoc (i migliori al solito sono tedeschi e scandinavi, perché anche l'educazione finanziaria è funzione del colore dei capelli); e via e via.
D'altronde, l'idea viene direttamente da uno che, negli ultimi anni, ci ha sempre visto lungo, e giusto.
Ora, è evidente che qualsiasi impegno dello Stato nel settore educativo è assolutamente commendevole, per cui ben venga l'insegnamento della finanza nelle scuole (purché non si traduca, come temo, in una teoria di pubblicità di questa o quella banca, questa o quella casa di investimenti), così come di qualsiasi altra materia economica (anzi, direi che - visti i tempi - per formare un cittadino non si può prescindere da un minimo di macroeconomia).
Ma qui il punto è un altro.
Il punto è che questo slancio verso l'alfabetizzazione delle masse inizia subito dopo la risoluzione (cioè, in italiano, la liquidazione coatta) delle quattro banche a dicembre 2016 e prende forza dopo l'orrendo pastrocchio combinato dal governo su Montepaschi. Si tratta, cioè, di carità pelosa, che cerca di designare come colpevoli (per ignoranza, ma colpevoli) le vittime. 
Vecchio trucco - di almeno settecento anni: la colpa seguirà offensa in grido, come suol -  che serve ad assolvere preventivamente i veri responsabili: chi non ha vigilato (Banca d'Itali e Consob, con Draghi in testa), chi ha firmato accordi europei destabilizzanti addirittura vantandosene via Twitter (Letta e Saccomanni), chi per leggerezza prima e per miope calcolo politico dopo ha introdotto il bail-in e non ha mosso un dito quando si è reso conto dello sconquasso che questo ha provocato (Renzi. Padoan conta come il due di coppe).
Prima della cura.
Dopo la cura.
A chi serve la patente finanziaria? A dei politici e a dei tecnici cialtroni che, consci di non sapere o non potere o non volere tutelare il popolo che dovrebbero rappresentare, suggeriscono amorevolmente alle persone di far da sole, e chi non ci riesce tanto peggio per lui.
Vergogna.
Tanto più che da oltre dieci anni vi sono innovazioni normative, di stampo comunitario, volte proprio a cercare di incrementare la tutela del piccolo risparmiatore, incolpevolmente ignaro del funzionamento di certi ingranaggi finanziari. Si tratta spesso di disposizioni inutili in quanto essenzialmente formalistiche (tutti noi abbiamo firmato, senza leggere neppure un rigo, le bibbie propinateci dalle nostre banche per adempiere agli obblighi Mifid), ma basate su un principio condivisibile: chi non è un investitore professionale, o quanto meno non dichiara espressamente di esserlo, certe operazioni non le può fare. Punto.
Allora mi ripeto: a chi serve la patente finanziaria, se nonostante queste disposizioni sono stati venduti al retail subordinati addirittura upper Tier 2, ABS con scadenza al 2040, fondi immobiliari chiusi, obbligazioni strutturate, polizze legate a derivati su commodities?
Ah già... pare che l'abbiano fatto per noi...

Nessun commento:

Posta un commento