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sabato 18 febbraio 2017

#fakenews

Sarebbe molto interessante capire la genesi dell'attuale attacco a coloro che, al di fuori dei media tradizionali, cercano di svolgere una funzione informativa spesso distante dalla vulgata giornalistica e televisiva. Questa genesi - la genesi del concetto stesso di fake news - è probabilmente da ricercarsi, come accade per tutti i temi all'ordine del giorno nel Vecchio Continente, Oltreoceano: una a mio avviso significativa confessione, in questo senso, l'abbiamo avuta addirittura in diretta.


Io, però, più limitatamente, non vorrei andare oltre le Colonne d'Ercole.
Già così, il materiale è veramente enorme.
A livello di Unione Europea - ancora scioccata per il risultato del referendum sul Brexit - la questione esplode soprattutto dopo l'elezione di Trump negli USA, ma affonda le sue radici come minimo nei 24 mesi precedenti. Certo, verso fine 2016, dopo il clamoroso fallimento dei media tradizionali statunitensi, tutti schierati, da destra a sinistra, con la Clinton, e in vista di elezioni molto importanti in Paesi chiave (il referendum costituzionale in Italia, già clamorosamente perso dal "Kasparov della cazzata", le elezioni in Olanda, Germania e Francia), il Parlamento partorisce il documento di maggiore risonanza, cioè questa fantastica "Risoluzione... del 23 novembre 2016 [ma l'inizio dei lavori data al marzo precedente, N.d.R.] sulla comunicazione strategica dell'UE per contrastare la propaganda nei suoi confronti da parte di terzi".
I "terzi" sono la Russia e l'ISIS, posti in pratica sullo stesso piano. Tanto per dire.
Chi è certo di non avere neppure remote pulsioni aggressive, può leggere il testo originale qui. Per tutti gli altri, rimando a questo storify c, che è meglio di un trattato.
Peraltro la connessione fra il "problema russo" e la propaganda mediatica ha data più antica.
Il tutto prende una piega ufficiale, per quanto posso ricostruire io, a marzo 2015 con le decisioni del Consiglio europeo (cioè il Consiglio dei Capi di Stato e di governo, il cui vecchio simbolo qui accanto è tutto un programma, e che è cosa diversa sia dal Consiglio dell'Unione Europea - che raccoglie un esponente del governo di ciascuno degli Stati membri dell'UE e rappresenta il principale organo legislativo dell'Unione - sia dal Consiglio d'Europa - che è un'organizzazione internazionale autonoma, di cui parleremo diffusamente sotto).
In breve, dopo aver ribadito le sanzioni a Mosca e stanziato fondi in cambio delle "solite" riforme per l'Ucraina, si sottolinea la "necessità di sfidare le attuali campagne di disinformazione della Russia" e si invita "l'Alto Rappresentante [che poi, in parole povere, sarebbe la Mogherini], insieme con gli Stati membri e l'Unione Europea, a preparare per giugno 2015 un piano d'azione in materia di comunicazione strategica", iniziando - come primo passo concreto - dalla creazione di un "team della comunicazione". Sono dieci esperti, pagati anche dagli Stati membri, il cui nome farebbe invidia anche a un corpo di marine: East StratCom Task Force (vi prego di farvi un giro sul sito perché è meraviglioso. Una perla tra tante: la task force "non cerca di indirizzare l'opinione pubblica, ma solo di verificare fatti e informazioni". Come no) e sono incardinati nell'EEAS, questa specie di servizio para-diplomatico dell'UE.
Per capire di che si tratta, qui di seguito un re-tweet a caso.
L'iniziativa dei Capi di Stato e di governo è fatta immediatamente propria dal Parlamento Europeo che, prima della Risoluzione sopra ricordata, ne produce un'altra del 10 giugno 2015, in cui si leggono amenità varie: il suddetto Parlamento "è estremamente preoccupato per la recente tendenza dei media russi, controllati dallo Stato, di riscrivere e reinterpretare eventi storici del XX secolo..., nonché per il ricorso alla narrativa storica selettiva a fini di propaganda politica attuale" ("chi controlla il passato controlla il futuro: chi controlla il presente controlla il passato", N.d.R.), oltre che per "i contatti e la cooperazione sempre più intensi, tollerati dalla dirigenza russa, tra partiti europei populisti, fascisti e di estrema destra, da un lato, e gruppi nazionalisti russi, dall'altro; riconosce che ciò rappresenta un pericolo per i valori democratici e per lo Stato di diritto nell'UE..." (Salvini, dunque, potrebbe essere un hacker russo e sicuramente lo è la Le Pen, N.d.R.); pertanto, sempre quel campione di democraticità e trasparenza che è il Parlamento, (i) "invita l'UE a sostenere progetti volti a promuovere e sviluppare elevati standard giornalistici, la libertà dei media e un'informazione imparziale e affidabile in Russia, nonché a smantellare la propaganda nell'UE e nei paesi del partenariato orientale", e (ii) "invita la Commissione a rendere disponibili finanziamenti sufficienti per le iniziative intese a sviluppare alternative mediatiche in lingua russa ai media russi controllati dallo Stato, al fine di fornire al pubblico russo-fono fonti d'informazioni credibili e indipendenti" (due righe per dire quello che si può spiegare con una sola parola, contro-propaganda, N.d.R.). Tradotto: date più soldi ai Rambo del web.
A fine dicembre Andrus Ansip - il commissario che riunisce sotto di sé tutte le competenze in materia di "mercato unico digitale" (quello del roaming, per capirsi) - dichiara al Financial Times: "sono preoccupato, come lo sono tutti i cittadini dell’Unione, specialmente dopo quello che è successo durante le elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Credo fortemente dell’autoregolamentazione, ma prima di essere pronti per questa prospettiva sono necessari alcuni chiarimenti”. In sostanza: o Facebook, Twitter, Google e compagnia non si adeguano, rischiano di incorrere in provvedimenti della Commissione. Il Codice di condotta contro l'hate speech - concetto già puzza terribilmente di censura, oltre che di inversione orwelliana del significato rispetto al significante, e che implica altresì un appalto a soggetti privati di funzioni prettamente statali che nessuno dovrebbe tollerare - evidentemente non basta, soprattutto nei Paesi dove, a breve, si terrà quel barbaro e ancestrale rito noto come "elezioni". Non è il solo a pensarla così (faccio notare che Ansip e Ilves sono estoni. Non proprio un dettaglio).
Anche il Consiglio d'Europa (un'organizzazione internazionale diversa dall'Unione Europea, il cui scopo è promuovere la democrazia, i diritti umani e l'identità culturale europea", ammesso che esista: ne fanno parte, ad oggi, 47 Stati) ha detto la sua. E lo ha fatto adottando un rapporto di una senatrice verdiniana già pentastellata, iscritta all'Alde (sì, proprio i fenomeni che hanno fatto battere una musata epica proprio a Grillo), Adele Gambaro (la ritroveremo).
Il rapporto è una specie di fritto misto: "l'obiettivo... è disciplinare l'informazione online come avviene per quella offline, usando gli strumenti già a disposizione negli ordinamenti giuridici nazionali, le leggi contro le informazioni false, illegali e lesive della dignità personale per contrastare la diffusione di notizie distorte, che quotidianamente inondano internet, consentendo per esempio ai colossi della rete l'uso di selettori software per rimuovere i contenuti falsi, tendenziosi, pedopornografici o violenti". E ancora: "è fondamentale aggregare la collaborazione digitale tra i diversi Paesi, oggi ancora carente. Questo, ridiscutendo del tabù dell'anonimato, della trasparenza e della proprietà dei media online, del diritto di replica, del diritto all'oblio, della protezione della privacy e della rimozione dei contenuti online. Le notizie false, o fake news o bufale, ci sono sempre state, ma non sono mai circolate alla velocità di oggi, nel circuito istantaneo della rete".

Ricapitoliamo: si inizia con l'asserita necessità di combattere la propaganda russa via web, si finisce col proporre la soppressione dell'anonimato online e la rimozione di contenuti scomodi. Sarò io poco sveglio, ma mi pare vi sia un discreto salto logico.

Non solo.
Quello che appare ancora più impressionante, almeno sulla base delle mie conoscenze, è l'assoluta mancanza di approfondimento giuridico della questione. Eppure, il punto di partenza in materia esiste, ed è rappresentato dal testo della CEDU.
Ai sensi dell'art. 10, "ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera...". Tuttavia, ai sensi del comma 2, "l’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e  responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all'integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui...". Inoltre altri articoli, soprattutto gli artt. 14 (divieto di discriminazione) e 17 (divieto di abuso del diritto: "nessuna disposizione della presente Convenzione può essere interpretata nel senso di comportare il diritto di uno Stato, un gruppo o un individuo di esercitare un'attività o compiere un atto che miri alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione o di imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla stessa Convenzione"), prevedono restrizioni implicite alla libertà di espressione.
In questo quadro di grande incertezza - da un lato l'ampia formulazione dell'art. 10, c. 1, interpretata peraltro dalla giurisprudenza della CEDU in modo estensivo, fino a ricomprendervi qualsiasi tipologia di manifestazione del pensiero, indipendentemente dalla forma ovvero dallo specifico contenuto (artistico; religioso; addirittura commerciale sia pure con certe limitazioni in caso di pubblicità decettiva o concorrenza sleale) della comunicazione (in un caso recente, riguardante il nostro Paese, la Corte ha addirittura evidenziato come, in linea di principio, il diritto di cronaca possa in qualche caso avere la meglio sul diritto alla riservatezza delle comunicazioni personali), dall'altro un secondo comma così vago da permettere, in linea di principio, abusi in senso censorio da parte degli Stati - la Corte Europea si è mossa in modo molto lucido.
In linea generale, la Corte ha sottolineato che le limitazioni poste dallo Stato alla libera manifestazione del pensiero debbono essere necessariamente previste dalla legge, perseguire scopi legittimi e configurarsi come misure necessarie in una società democratica  per raggiungere i medesimi scopi. Inoltre, le limitazioni del diritto di cronaca sono vagliate con particolare severità, stante lo stretto rapporto fra pluralismo e democrazia.
Anche in relazione a ciò che si dirà in seguito, il principio della "riserva di legge è molto importante", perché comporta anche alcuni corollari, quali l'accessibilità agli interessati alla norma, una formulazione molto precisa della stessa (onde consentire di prevedere, ad un livello ragionevole nelle circostanze di causa, le conseguenze che possono scaturire da una determinata azione), la possibilità di conferire a autorità pubbliche un potere discrezionale che però dev'essere connesso allo scopo legittimo in gioco e non può mai sfociare nell'arbitrio (Margareta e Roger Andersson c. Svezia, 25 febbraio 1992, Serie A, n. 226 - A).
Non solo: a garanzia del diritto del singolo, la Corte di recente si è riservata di valutare se le restrizioni previste dalla legge si concilino con lo spirito dell'art. 10, con ciò limitando di fatto il margine di apprezzamento discrezionale concesso agli Stati.
Infine, la Corte ritiene di poter giudicare in ordine alla proporzionalità fra violazione di un limite alla libertà di espressione e la sua sanzione (caso Ormanni). Una sanzione detentiva non è MAI proporzionata (salvo il solito caso dell'incitamento all'odio, specie se razziale: sono giudici abbastanza di ampie vedute, ma restano funzionari europei...).
Rispetto alle fake news, poi, la Corte osserva che in una società democratica la stampa svolge il fondamentale ruolo di "cane da guardia" (Thorgeir Thorgeirson c. Islanda, sentenza del 25 giugno 1992) e che il giornalista, pur potendo far ricorso ad un certo grado di esagerazione, cioè di provocazione (Prager e Oberschlick c. Austria, sentenza del 25 aprile 1995; Thoma c. Lussemburgo n. 38432/97, CEDH 2001-III), ha l’obbligo di comunicare al pubblico informazioni di interesse generale, purché affidabili e precise, e di esporre correttamente i fatti nel rispetto della deontologia professionale (Fressoz e Roire c. Francia n. 29183/95 CEDH 1999-1; Bladet Tromsø e Stensaas c. Norvegia n. 21980/93, CEDH 1999-III).

Di tutto questo, nel dibattito del Parlamento europeo e del Consiglio d'Europa non c'è traccia.

Evidentemente, lo scopo censorio fa premio su qualsiasi altra considerazione, non dico di sostanza, ma quanto meno di forma. Comunque, dalle istituzioni europee, la caccia alle streghe si espande a macchia d'olio in molti Paesi dell'Unione (oltre che in note democrazie come il Myanmar e la Cina: a questo proposito consiglio la lettura di un articolo del Guardian oltre il dadaismo, enorme fake news per combattere le fake news).

L'Italia...
In Italia, com'era da immaginarsi, il tema della contro-propaganda è passato in secondo piano, a favore di quello della censura. Sicuramente due momenti significativi sono state le prese di posizione di Laura Boldrini, che (per quanto ciascuno di noi tenda a rimuovere l'idea) è tuttora Presidente della Camera dei Deputati, e di Giovanni Pitruzzella, Presidente dell'Autorità Antitrust (sebbene lui, con ogni evidenza, ritenga di essere piuttosto presidente dell'AgCom).
Quest'ultimo si è sentito in dovere addirittura di invocare, "contro la diffusione delle false notizie..., una rete di organismi nazionali indipendenti ma coordinata da Bruxelles e modellata sul sistema delle autorità per la tutela della concorrenza, capaci di identificare le bufale online che danneggiano l’interesse pubblico, rimuoverle dal web e nel caso imporre sanzioni a chi le mette in circolazione". Probabilmente la vorrebbe presiedere.
La nostra amabile Presidente della Camera, invece, ha sposato una linea più morbida (cioè, senza eufemismi, più subdola). Prima, ha lanciato un'ampia petizione contro le fake news - tra l'altro sponsorizzata da un'agenzia di stampa notoriamente indipendente - e arruolato alcuni debunker di grido, tra cui il fantasmagorico Paolo Attivissimo (vi ricordare il Consiglio?, come prima cosa creare un team di comunicazione...).
Poi, ha addirittura scritto a Zuckerberg, chiedendo a lui ed agli altri gestori di social network di fare il lavoro sporco.
Come si vede, il bastone e la carota, esattamente come su scala europea.
Se non che...
1) "Punire" le fake news tramite chiusura di account, o disattivazione della possibilità di monetizzazione delle visualizzazioni dei siti, o ancora riduzione delle indicizzazioni di blog o canali youtube, significa permettere una specie di "giustizia privata" (sì, perché pare che le società delle Felpe californiane pare siano ancora soggetti privati) in aperto contrasto con quanto richiesto dalla CEDU in relazione al principio della "riserva di legge".
2) Tutta questa congerie di dichiarazioni, piani, proposte, sia a livello europeo sia a livello italiano, tende ad equiparare la "bufala" (cioè un'informazione non corretta) a una "notizia falsa" o fake news (che è concetto più ristretto del precedente), e quindi la "notizia falsa" al c.d. "hate speech" (che è concetto ancora diverso, che può anche prescindere dalla verifica in ordine alla veridicità dell'affermazione "di odio"). In questo modo, si possono continuare a leggere o sentire, sui media mainstream, le più incredibili bugie economiche, le più demenziali previsioni sul futuro del Paese, una quotidiana diffamazione della spesa pubblica e, per quella via, dello Stato sociale. 

Tutto questa attività ha preparato il terreno per il disegno di legge sulla "prevenzione della manipolazione dell'informazione on line", come si esprime l'ineffabile senatrice Gambaro, che abbiamo già trovato sopra.
Ora, questo disegno di legge, si distingue per due particolarità: (i) per essere firmato da parlamentari di vari partiti e schieramenti ma soprattutto di quelli di opposizione (Ala, Lega Nord, Forza Italia) e comunque tutti di terza o quarta fila, in modo da non impegnare i rispettivi partiti né imporre calendarizzazioni particolarmente rapide; (ii) per dimostrare una sciatteria giuridica ai limiti dell'incredibile.
I primi due articoli prevedono due nuove fattispecie di reato (siamo, cioè, in un ambito penale). La prima (art. 1, c. 1) riguarda "chiunque pubblica o diffonde, attraverso piattaforme informatiche destinate alla pubblicazione o diffusione di informazione presso il pubblico, con mezzi prevalentemente elettronici o comunque telematici, notizie false, esagerate o tendenziose che riguardino dati o fatti manifestamente infondati o falsi, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l'ammenda fino a Euro 5.000".
Il reato trova collocazione sistematica nel titolo dedicato alle contravvenzioni di polizia e, più precisamente, nel capo relativo alle contravvenzioni concernenti la polizia di sicurezza, nella sezione che riguarda l'ordine pubblico e la tranquillità pubblica; però in questa fattispecie, guarda caso, al contrario che nel precedente art. 656 c.p., il riferimento all'ordine pubblico non c'è.
Ora, la senatrice Gambaro dovrebbe sapere che la Corte Costituzionale ha "salvato" l'art. 656 c.p. con tre successive sentenze (C. Cost., sent. 16 marzo 1962, n. 19; C. Cost., 19 dicembre 1972, n. 199; C. Cost., 3 agosto 1976, n. 210), coordinando l'art. 21, Cost., il limite rappresentato "dalla necessità di non incidere nel campo degli altri diritti e interessi costituzionalmente garantiti", tra cui sicuramente trova spazio l’ordine pubblico "inteso nel senso di ordine legale su cui si poggia la convivenza sociale", costituendo "un bene collettivo, che non è dammeno della libertà di manifestazione del pensiero" (v. qui). In quest'ottica, l'ordine pubblico è un'espressione che compendia le prerogative dello Stato al mantenimento dell'ordine repubblicano, assicurando che queste possano essere garantite "anche in presenza dei diritti... [di cui] agli artt. 13 ss. Cost., rafforzandone ... il valore e la vigenza". Ciò nonostante, parte della dottrina ha comunque criticato la succitata ricostruzione, auspicando "un intervento coraggioso" volto a dichiarare l'illegittimità costituzionale della norma. In ogni caso, l'applicazione dell'art. 656, c.p., risulta particolarmente ridotto, ove si faccia riferimento alla giurisprudenza di legittimità che ha distinto il "diritto di cronaca" (che non deve essere né tendenzioso, né esagerato: v. anche le sentenze CEDU sopra riportate) dal "diritto di critica": quest’ultimo infatti "non si concreta nella narrazione di fatti, bensì si esprime in un giudizio o più genericamente nella manifestazione di una opinione che sarebbe contraddittorio pretendere rigorosamente obiettiva" (Cass., 16 aprile 1993; Cass., 8 aprile 2002).
In sostanza, qualsiasi condotta che, rifacendosi a fatti realmente accaduti, ne dia una interpretazione anche fortemente soggettiva, NON può condurre all'incriminazione.
Restano le notizie "false". Queste sì che, ove pubblicate, sono punibili, ma soltanto laddove creino un turbamento dell'ordine pubblico. Si tratta di un reato di pericolo, certo, ma di pericolo concreto. Se così non fosse, non vi sarebbe rispetto dell'art. 21, Cost..
L'altra fattispecie del d.d.l. Gambaro è ancora migliore.
Riguarda "chiunque diffonde o comunica voci o notizie false, esagerate o tendenziose, che possono
destare pubblico allarme, o svolge comunque un'attività tale da recare nocumento agli interessi
pubblici o da fuorviare settori dell'opinione pubblica, anche attraverso campagne con l'utilizzo di
piattaforme informatiche destinate alla diffusione online". Qui, oltre all'ammenda, c'è la reclusione "non inferiore a dodici mesi" (ventiquattro in caso "di campagne d'odio contro individui o di campagne volte a minare il processo democratico, anche a fini politici").
Qui la giurisprudenza CEDU non è ignorata, è proprio consapevolmente violentata.
Ma non solo (ho quasi pudore a scrivere il resto).
La norma è posta dopo un'altra, di cui è in sostanza il calco, che punisce il disfattismo politico (!) ed è applicabile solo in tempo di guerra (!!). In tempo di guerra! Ci rendiamo conto? Questa gente pensa davvero di star combattendo una guerra! Ed hanno ragione, badate bene, hanno ragione. Il problema è che i loro nemici siamo noi. Noi. Quel popolo che, fino a prova contraria, dovrebbe essere il depositario di quella sovranità di cui loro fanno continuamente strame.
Commentando la norma, così si esprime Andrea Sereni: "in breve, i reati politici risentono della realtà dittatoriale del tempo in cui furono concepiti. L’importanza degli interessi in gioco, sicurezza e prestigio dello Stato, giustificano pesanti deroghe alle garanzie individuali previste nella stessa parte generale del codice Rocco per la criminalità normale".
Ecco.
Ma se si tratta di un disegno di legge scritto male, presentato da peones, che non diventerà mai legge, perché perdere tutto questo tempo e scriverci addirittura un post? Il perché, senza che ve lo dica io, ve lo spiega bene Palombi.
Eh sì, il solito vergognoso metodo Juncker. Gettare all'opinione pubblica un ballon d'essai evidentemente esagerato, evidentemente irricevibile, evidentemente liberticida, per poi tornare parzialmente indietro, iniziare a discutere, mediare, ed alla fine raggiungere, come fosse una cosa normale, l'obiettivo che ci si era prefissati e che, senza tutta questa lunga ma fruttuosa operazione di creazione di una cortina fumogena, mai e poi mai sarebbe stato concesso.
So che per molti di voi questa volta sarà diverso.
E invece no. Non è mai diverso.



Secondo Il Foglio, anche questa di Messora sarebbe una fake news...

* * * * *

Ricapitoliamo.
Da un lato si presenta una proposta di legge chiaramente irricevibile (che, sia detto per inciso, non sarebbe stata applicabile alle testate giornalistiche!), dall'altro - sfruttando la "minore attenzione" dell'opinione pubblica - si raggiunge comunque l'obiettivo voluto sin dal principio, cioè silenziare le voci libere del web (tramite il ricatto del divieto di pubblicità, a insindacabile giudizio di Google) per permettere alle Botteri di ogni dove di continuare a propalare le loro fregnacce a reti unificate.
Se vuoi dire il falso, devi essere giornalista.
Quello che, obiettivamente, più mi ripugna, è che questo modo di agire (e, peggio, di pensare) è sposato addirittura da giuristi. Per esempio, Ruben Razzante, docente di diritto dell'informazione alla Cattolica di Milano: "i colossi della rete devono intervenire tempestivamente per frenare la condivisione di palesi bufale, a fronte di segnalazioni da parte degli utenti, e per limitare la diffusione, la visibilità e la pubblicità di siti che ciclicamente ospitano notizie inattendibili...". Notare un professore che auspica sostanzialmente la legalizzazione del reato di violenza privata e la delazione: si parla infatti di utenti e non di interessati. Ancora: "serve una rete di organismi nazionali indipendenti, ma coordinata da Bruxelles, e modellata sul sistema delle autorità per la tutela della concorrenza, capaci di identificare le bufale on line che danneggiano l'interesse pubblico, rimuovendole dal web e imporre sanzioni a chi le mette in circolazione. L'obiettivo è far perdere credibilità - e pubblicità - alle notizie false e alle testate che le ospitano". Notare gli "organismi indipendenti che dipendono dalla UE" e il rapporto fra notizie da censurare e "interesse pubblico" (cioè dell'élite dominante).Se poi si aggiunge che il prof. Razzante  è molto preoccupato non solo della "verità" delle notizie che appaiono sul web, ma anche della loro "rilevanza"...

* * * * *

Questo post non finirà mai.
Perché la verità supera continuamente la più fervida fantasia.
Il Parlamento Europeo ha infatti votato una nuova "regola" assembleare (non pubblicata) che attribuisce al Presidente del Parlamento la possibilità di "spegnere" le trasmissioni in diretta dei dibattiti parlamentari "in caso di linguaggio o comportamenti diffamatori, razzisti o xenofobi dei parlamentari". Nel caso, ai parlamentari è inflitta anche una sostanziosa multa. Non bastando questo, il "materiale incriminato" può essere rimosso dalle registrazioni.
L'opinione pubblica, in sostanza, sarà informata dei discorsi (ritenuti) diffamatori (dal Presidente del Parlamento) solo e soltanto vi siano giornalisti (non compiacenti) a riportare quanto accaduto.
(Apro parentesi. Sarò io poco attento, ma la notizia sui giornali italiani non l'ho trovata. Se la conosco, è grazie agli amici su Twitter e alla stampa anglosassone.
Chiusa parentesi).
Pare che chi ha criticato il provvedimento abbia sottolineato che "le regole sono state formulate in modo vago e possono dunque essere manipolate o utilizzate come strumento di censura". Saranno sicuramente un'accolita o di fascisti o di bolscevichi. O entrambe le cose.
O forse no. Così scrive il Telegraph: "ciò compromette l'affidabilità degli archivi del Parlamento in un momento in cui il sospetto di 'notizie false' e manipolazione minaccia la credibilità dei media e dei politici, ha detto Tom Weingaertner, presidente della Associazione della Stampa Internazionale con sede a Bruxelles".
(Apro di nuovo parentesi. Leggete l'articolo del Telegraph, che è meraviglioso nella parte in cui discute le modalità "tecniche" per realizzare questa censura, ivi compresa la differita di pochi secondi, tipo Superbowl per evitare le tette al vento di Janet Jackson. Chiusa parentesi).
Altri pericolosi sovversivi hanno evidenziato come l'utilizzo abnorme di questa regola potrebbe portare a modificare il senso dei dibattiti: "se si segue tutto il dibattito è una cosa, ma se si dispone solo di alcuni mezzi di comunicazione che tirano fuori singole frasi, si potrebbe vedere falsificata l'intera questione".
A proposito. Il Presidente del Parlamento Europeo è Tajani.

2 commenti:

  1. Buongiorno,

    come al solito il mio contributo si limita a segnalare un periodo incompleto; in questo caso, sembra che inizio e fine siano state scritte in due tempi diversi (pausa caffe'?), e non si parlano molto:

    >> o Facebook, Twitter, Google e compagnia non si adeguano, rischiano di incorrere in provvedimenti della Commissione.

    IPB

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    Risposte
    1. Scritto in più volte. Tutti i giorni, grazie ai mentecatti che ci governano, ci sarebbe da aggiungere un capitolo.
      Buona giornata.

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