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lunedì 6 febbraio 2017

Anche la Corte Costituzionale si avvede che i Trattati contraddicono la Costituzione

Premessa

Questo post vuole evidenziare l'aggressività dell'ordinamento giuridico europeo rispetto a quello italiano e la mancanza di qualsiasi strategia di difesa da parte degli organi che, teoricamente, dovrebbero garantire la nostra sovranità (che - fin tanto che resta in vigore l'art. 1 della Costituzione - appartiene al popolo).
Per spiegare la questione, tuttavia, è necessario un ragionamento un po' più articolato, che comporta: (i) una breve disamina del "diritto penale europeo" (introduzione); (ii) la ricostruzione della vicenda giudiziaria in commenti (i fatti e gli antefatti); (iii) alcune considerazioni conclusive (di buon senso).
Chi ha già dimestichezza con la materia può senz'altro passare direttamente al punto (iii).

(I) INTRODUZIONE

(I.a) Cosa è il diritto penale europeo

Esiste una branca del diritto europeo assai complicata e spesso negletta. Come al solito, è complicata e negletta perché particolarmente importante (cioè prospetticamente capace di incidere in modo significativo sulla vita di ciascuno).
Si tratta del diritto penale europeo.
Gli artt. 82 e ss. del TFUE prevedono infatti sia il "principio di riconoscimento reciproco delle sentenze e delle decisioni giudiziarie", sia il "ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri", sia la "cooperazione tra le autorità giudiziarie degli Stati... in relazione all'azione penale e all'esecuzione delle decisioni".
Propedeutiche al riconoscimento reciproco delle sentenze sono disposizioni assai rilevanti, poiché attengono all'ammissibilità reciproca delle prove, ai diritti della persona nella procedura penale, ai diritti delle vittime della criminalità, oltre che ad altri non meglio precisati "elementi specifici della procedura penale, individuati dal Consiglio in via preliminare mediante una decisione" unanime.
Il riavvicinamento delle disposizioni legislative si attua mediante l'emanazione di "norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in sfere di criminalità particolarmente grave" -terrorismo, tratta e sfruttamento sessuale degli esseri umani, traffico di stupefacenti e di armi, riciclaggio, corruzione, contraffazione di mezzi di pagamento, criminalità informatica e criminalità organizzata - "che presentano una dimensione transnazionale derivante dal carattere o dalle implicazioni di tali reati o da una particolare necessità di combatterli su basi comuni".
Non solo: "allorché il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri in materia penale si rivela indispensabile per garantire l'attuazione efficace di una politica dell'Unione in un settore che è stato oggetto di misure di armonizzazione, norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni nel settore in questione possono essere stabilite [non tramite regolamento, ma comunque] tramite direttive".
(Prima osservazione. L'Unione Europea si arroga il diritto di comminare sanzioni afflittive in relazione a fattispecie che possano astrattamente pregiudicare qualsivoglia norma emanata dalla stessa Unione in settori oggetti di armonizzazione. ...).
Tra i reati previsti dall'art. 83, c. 1, TFUE (Trattato di Lisbona) non figura più, come accadeva nel precedente TUE (Trattato di Maastricht), quello di "frode", che rimane invece "confinato" all'art. 325 del TFUE. Il c. 4, ad esempio, dispone: "il Parlamento europeo e il Consiglio... adottano le misure necessarie nei settori della prevenzione e lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell'Unione, al fine di pervenire a una protezione efficace ed equivalente in tutti gli Stati membri e nelle istituzioni, organi e organismi dell'Unione".
I dubbi della dottrina sull'effettiva portata della disposizione, peraltro, hanno nel caso di specie un rilievo tutto particolare, come vedremo in seguito.

(I.b) Le garanzie dell'imputato nel sistema europeo

Risulta evidente che, a livello di Unione Europea, alla competenza penale si debbano accompagnare anche garanzie di tutela degli imputati. Ad esempio, nella nostra Costituzione tali tutele si riscontrano - largo circa - agli artt. 13, da 24 a 27, e 111 (giudice naturale precostituito per legge, principio di legalità [nessuno può essere giudicato se non in base a una legge, né a una pena che non sia prevista dalla legge, posto che la legge sia precisa e stringente: v. sotto], habeas corpus e diritto di difesa, limitazioni all'estradizione, personalità della responsabilità penale, presunzione di innocenza, funzione rieducativa della pena, giusto processo).
Gli estensori dei Trattati hanno creduto di poter risolvere la questione attraverso l'art. 6 del TUE, che istituisce un raccordo tra le garanzie contenute nel diritto dell’Unione e quelle già previste sia dalla Carta Europea dei Diritto dell'Uomo (o CEDU) sia dagli Stati membri: un caso noto è il riconoscimento del rango di "principio generale di diritto europeo" in relazione alla retroattività delle norme penali più favorevoli, rinvenibile nelle tradizioni costituzionali comuni (cfr. CGCE, 3 maggio 2005, causa C-387/02 relativa alle vicende giudiziarie del Silvione nazionale).
A tale strada se ne è aggiunta un'altra, a partire dalla dichiarazione di Nizza del 2000, che ha portato alla elaborazione di una "Carta dei diritti" dotata del medesimo rango dei Trattati ai sensi dell'art. 6, c. 1, del TUE. La Carta, che riconosce un catalogo minimo di garanzie penali e processuali, opera - per effetto dell’art. 51, c. 1 - "esclusivamente in attuazione del diritto dell’Unione".
Che significa? Una cosa fondamentale, secondo la Corte di Giustizia, e ciò che la Carta ha la prevalenza rispetto alle Costituzioni nazionali (cfr. CGCE, sentenza 26 febbraio 2013, C-199/11, Melloni, § 59, secondo cui il primato delle norme europee non incontra limiti, neanche nelle norme costituzionali degli Stati membri: "il fatto che uno Stato membro invochi disposizioni di diritto nazionale, quand'anche di rango costituzionale, non può sminuire l’efficacia del diritto dell’Unione nel territorio di tale Stato"). 
(Seconda osservazione. Logico corollario di quanto sopra è la possibilità di rinvio pregiudiziale alla CGCE anche da parte della stessa Corte Costituzionale, nonché il diritto della Corte di Giustizia di rimettere in discussione addirittura un giudicato di un Paese membro (CGCE, sentenza 18 luglio 2007, C-119/05, Ministro Industria c. Lucchini: per una lettura meno dirompente della sentenza, cfr. Lembo, in Dir. e Prat. Trib., 2015, 6, 10936). Questa impostazione, tuttavia, confligge con la pregressa giurisprudenza della Corte Costituzionale, che ha sempre ritenuto di mantenere comunque il diritto a verificare l’eventuale conflitto della norma comunitaria in ipotesi applicabile con i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e con i diritti inalienabili della persona umana. Si tratta dei c.d. “controlimiti” i quali, tuttavia, secondo una certa corrente dottrinale sarebbero stati anch'essi "europeizzati" (oltre che dall'art. 6, anche) dall'art. 4, c. 2, del TUE, secondo cui "l'Unione rispetta l'uguaglianza degli Stati membri davanti ai trattati e la loro identità nazionale insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali e regionali" (v. Ruggeri, Trattato costituzionale, europeizzazione dei “controlimiti”, e tecniche di risoluzione delle antinomie tra diritto comunitario e diritto interno..., in Staiano, Giurisprudenza costituzionale e principi fondamentali, Torino, 2006, 827).
Scrivevo in un precedente post: "se così fosse, anche su questi [controlimiti] (e sul loro effettivo contenuto) sarebbe chiamati a pronunciarsi, in ultima istanza, la Corte di Giustizia, nonostante un orientamento (al momento) nettamente contrario da parte della Corte Costituzionale (Corte Cost., 22 ottobre 2014, n. 238). Potrebbe però essere possibile [in futuro]... anche un rinvio alla stessa Corte di Giustizia proprio in virtù della sopra ricordata «europeizzazione» dei «controlimiti». Almeno, si darebbe una volta per tutte alla volpe il diritto di giudicare sulle galline").

(II) I FATTI E GLI ANTEFATTI

(II.a) Dalla sentenza Taricco all'ordinanza n. 24 del 2017

La Corte di Giustizia, con sentenza dell'8 settembre 2015 relativa alla causa C-105/14 (c.d. sentenza Taricco), condanna l'Italia per la vigente (all'epoca dei fatti) disciplina della prescrizione dei reati tributari. Secondo i giudici, la previsione di un termine massimo per il raggiungimento di una condanna definitiva pur in presenza di atti interruttivi determinava, in pratica, la sistematica impunità delle frodi carosello in materia di IVA (tributo, come noto, europeo).
Secondo la Corte, dunque, il giudice penale deve disapplicare il combinato disposto dell'art. 160, u.c., e dell'art. 161, c.p. (peraltro modificati dal Berlusca quasi alla fine del suo ultimo governo), in quanto idoneo a pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dall'art. 325, cc. 1 e 2, TFUE, nell'ipotesi in cui detta normativa nazionale impedisca di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione Europea, o in cui preveda, per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, termini di prescrizione più lunghi di quelli previsti per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dell’Unione Europea.
Questo significa, in soldoni, che secondo la Corte di Lussemburgo il giudice italiano deve - a certe condizioni (tra l'altro di difficilissima previsione: si pensi al concetto di "violazione grave", o a quello di "impossibilità di infliggere sanzioni effettive e dissuasive contro le frodi gravi in un numero considerevole di casi”), in specifiche circostanze - pronunciare sentenza di condanna anche in relazione a un reato che la normativa penale vigente, di fonte legislativa italiana, considera ormai prescritto: il primato del diritto UE sul diritto degli Stati membri può dunque comportare anche effetti in malam partem rispetto alla posizione soggettiva del singolo cittadino. Quello che era stato negato con la c.d. "sentenza Berlusconi" (poiché, secondo la CGCE, "una direttiva non può avere l’effetto, di per sé ed indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o di aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni”) è invece qui solennemente affermato, essendo la norma asseritamente violata una norma di rango primario, contenuta nel Trattato di Lisbona, sia pure specificata dalla c.d. "Convenzione PIF" (sarebbe interessante parlare della proposta direttiva che dovrebbe sostituire la Convenzione, e della relativa Risoluzione del Parlamento Europeo... vabbè passiamo oltre).
Ma significa anche, per dirla in modo semplice, neppure contemplare l'ipotesi che il giudice italiano (essenzialmente il giudice costituzionale) si rifiuti di adempiere a tale obbligo, individuando nel principio di legalità in materia penale uno specifico, invalicabile “controlimite”.
Cosa dice, in proposito, la sentenza Taricco? Una cosa semplice, ma inappropriata. Nega cioè in radice che vi sia in questo caso alcuna violazione del principio di legalità. Infatti, ai sensi del combinato disposto degli artt. 49 e 52 della "Carta dei diritti", la disciplina della prescrizione atterrebbe alle condizioni di procedibilità del reato, rispetto alle quali detto principio (ridotto a nullum crimen sine lege e a nulla poena sine lege) non viene in rilievo. Peccato che la nostra Corte Costituzionale - a torto o a ragione, qui non rileva - abbia più volte chiaramente statuito esattamente l'opposto (v. p.e. C. Cost., sentenza n. 324/2008).
Il contrasto è palese ed è stato subito avvertito sia dalla Cassazione (che parla di "aggravamento del regime della punibilità di natura retroattiva"), sia dal Tribunale di Milano, che hanno investito la Corte Costituzionale del giudizio in ordine alla compatibilità con la nostra Carta "dell’art. 2 della legge 2 agosto 2008, n. 130 (Ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull'Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea e alcuni atti connessi, con atto finale, protocolli e dichiarazioni, fatto a Lisbona il 13 dicembre 2007)".
(La sventurata rispose).

(II.b) Il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia

Per giurisprudenza costante, la Corte Costituzionale "può verificare, attraverso il sindacato di costituzionalità della legge di esecuzione, se le norme del Trattato..., come sono interpretate ed applicate dalle istituzioni e dagli organi comunitari, siano in contrasto con i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale o attentino ai diritti inalienabili della persona umana" (C. Cost., 21 aprile 1989, n. 232; C. Cost.,, 8 giugno 1984, n. 170).
Ora, come la CGCE interpreti l'art. 325, TFUE mi sembra abbastanza chiaro. I Supremi Giudici, invece, hanno ritenuto di no (essenzialmente appellandosi ai §§ 53 e 55, che fanno appunto riferimento alla valutazione del giudice in ordine al "rispetto dei diritti degli imputati") e dunque si sono rivolti alla Corte di Giustizia in via pregiudiziale (ordinanza n. 24 del 26 gennaio 2017).
Il punto di partenza è quello sopra ricordato: nell'ordinamento costituzionale italiano il regime della prescrizione, in quanto facente parte del diritto sostanziale (e non di quello processuale, come accade in altri Paesi e come si desume dalla Carta di Nizza), è soggetto ai principi fondamentali di "legalità" (per cui la norma penale deve essere certa, precisa e stringente, come detto sopra) e di "irretroattività" (per cui la norma penale deve essere conoscibile prima del fatto).
Muovendo da tale assunto, la Corte Costituzionale ritiene: (a) che l'imputato non potesse ragionevolmente prevedere, in base al quadro normativo vigente al tempo del fatto, che il diritto dell'Unione avrebbe imposto al giudice italiano di disapplicare gli artt. 160, u.c., e 161, c. 2, c.p., in presenza delle specifiche condizioni indicate dalla CGCE; (b) che le regole di diritto enunciante nella sentenza non sono idonee a delimitare la discrezionalità giudiziaria, poiché non vi è modo di definire in via interpretativa con la necessaria determinatezza il requisito del "numero considerevole di casi", cui fa riferimento la sentenza Taricco.
La Corte, date queste premesse, avrebbe potuto semplicemente dichiarare l'illegittimità costituzionale della legge di ratifica dei Trattati, per la sola parte in cui essa consente che quell'ipotesi normativa si realizzi (così come d'altronde ammesso dagli stessi Supremi Giudici). Invece, propone tre quesiti, volti ad acclarare se la norma nazionale contrastante con il diritto dell'Unione Europea debba essere disapplicata dal giudice nazionale: (i) anche nel caso in cui a fondamento di questo obbligo di disapplicazione non vi sia una base legale sufficientemente determinata; (ii) anche quando nell'ordinamento dello Stato membro la prescrizione sia parte del diritto penale sostanziale e soggetta al principio di legalità; (iii) anche quando la mancata applicazione della norma nazionale sia in contrasto con i principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato membro o con i diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla Costituzione dello Stato membro.
Nel mezzo... alcune asserzioni piuttosto inquietanti.

(III) LE CONSIDERAZIONI DELLA CORTE E QUELLE DEL BUON SENSO

(III.a) L'ordinanza della Corte

Nella propria ordinanza, la Corte sottolinea ripetutamente che "il riconoscimento del primato del diritto dell'Unione è un dato acquisito nella giurisprudenza  di questa Corte, ai sensi dell'art. 11, Cost.", pur dovendo ammettere che "questa stessa giurisprudenza ha altresì costantemente affermato che l'osservanza dei principi supremi dell'ordine costituzionale italiano e dei diritti inalienabili della persona è condizione perché il diritto dell'Unione possa essere applicato in Italia".
La motivazione addotta per fondare tale presa di posizione è però quantomeno bizzarra.
Così scrive la Corte: "il primato del diritto dell'Unione non esprime una mera articolazione tecnica del sistema delle fonti nazionali e sovranazionali. Esso riflette piuttosto il convincimento che l'obiettivo della unità, nell'ambito di un ordinamento che assicura la pace e la giustizia tra le Nazioni, giustifica una rinuncia a spazi di sovranità, persino se definiti da norme costituzionali. Al contempo la legittimazione (art. 11 della Costituzione italiana) e la forza stessa dell'unità in seno ad un ordinamento caratterizzato dal pluralismo (art. 2 del TUE) nascono dalla sua capacità di includere il tasso di diversità minimo, ma necessario per preservare la identità nazionale insita nella struttura fondamentale dello Stato membro (art. 4, paragrafo 2, del TUE). In caso contrario i Trattati europei mirerebbero contraddittoriamente a dissolvere il fondamento costituzionale stesso dal quale hanno tratto origine per volontà degli Stati membri".
(In realtà, l'art. 11, Cost., parla di "limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni", e "in condizioni di parità con gli altri Stati". Tralascio qui ogni considerazione sulla questione della "parità": quello che hanno scritto Alberto Bagnai e Luciano Barra Caracciolo su questo punto è più che sufficiente. Tralascio anche il ridicolo riferimento alla "pace" e alla "giustizia", in relazione a un ordinamento che ha prodotto la più immane tragedia sociale, anzi umanitaria, dell'Europa moderna. Vorrei far notare però una certa differenza terminologica fra la Costituzione - "limitazioni di sovranità" - e la Corte Costituzionale - "rinuncia a spazi di sovranità" -, differenza che a mio avviso non è né casuale né priva di significati profondi. Quello che segue lo dimostra ampiamente, a mio avviso).
La primazia del diritto europeo. Cosa significa in pratica? Secondo la Corte Costituzionale significa, in buona sostanza, che prima dei Trattati vengono i "principi costituzionali", ma prima dei "principi costituzionali" viene l'obiettivo di unificazione delle legislazioni. Scrivono i giudici: "il caso qui esaminato si distingue nettamente da quello... [relativo alla] causa C-399/11, Melloni, con la quale si è escluso che, in forza delle previsioni della Costituzione di uno Stato membro, potessero aggiungersi ulteriori condizioni all'esecuzione di un mandato di arresto europeo, rispetto a quelle pattuite con il «consenso raggiunto dagli Stati membri nel loro insieme a proposito della portata da attribuire, secondo il diritto dell’Unione, ai diritti processuali di cui godono le persone condannate in absentia». In quel caso una soluzione opposta avrebbe inciso direttamente sulla portata della Decisione quadro 26 febbraio 2009, n. 2009/299/GAI... e avrebbe perciò comportato la rottura dell’unità del diritto dell’Unione in una materia basata sulla reciproca fiducia in un assetto normativo uniforme. Viceversa, il primato del diritto dell’Unione non è posto in discussione nel caso oggi a giudizio, perché, come si è già osservato, non è in questione la regola enunciata dalla sentenza in causa Taricco, e desunta dall'art. 325 del TFUE, ma solo l’esistenza di un impedimento di ordine costituzionale alla sua applicazione diretta da parte del giudice".
(Probabilmente non interpreto bene. D'altronde, se sbaglio mi corriggerete. Mi sembra però di capire che, ove vi fosse un qualche atto normativo direttamente applicabile emanato dai competenti organi dell'UE, volto al riavvicinamento delle legislazioni dei Paesi membri, ma incidente su un "principio costituzionale" italiano, il "principio costituzionale" potrebbe essere tranquillamente messo da parte a favore della superiore istanza dell'omogeneizzazione delle legislazioni in una serie di ambiti su cui l'Italia avrebbe ceduto la propria sovranità. L'art. 11, Cost., finirebbe dunque per essere norma sovraordinata a qualsiasi altra di rango costituzionale, sia pure limitatamente alle materia in cui vi sia consenso per un assetto normativo uniforme, diciamo largo circa all'acquis comunitario. Melloni è come Falqui. Basta la parola).
Ma l'idea della "primazia del diritto europeo" si riscontra anche in un altro passaggio della Corte: "anche se si dovesse ritenere che la prescrizione ha natura processuale, o che comunque può essere regolata anche da una normativa posteriore alla commissione del reato, ugualmente resterebbe il principio che l’attività del giudice chiamato ad applicarla deve dipendere da disposizioni legali sufficientemente determinate. In questo principio si coglie un tratto costitutivo degli ordinamenti costituzionali degli Stati membri di civil law. Essi non affidano al giudice il potere di creare un regime legale penale, in luogo di quello realizzato dalla legge approvata dal Parlamento, e in ogni caso ripudiano l’idea che i tribunali penali siano incaricati di raggiungere uno scopo, pur legalmente predefinito, senza che la legge specifichi con quali mezzi e in quali limiti ciò possa avvenire. Il largo consenso diffuso tra gli Stati membri su tale principio cardine della divisione dei poteri induce a ritenere che l’art. 49 della Carta di Nizza abbia identica portata, ai sensi dell’art. 52, paragrafo 4, della medesima Carta".
(In altri termini. E sempre col beneficio dell'inventario: mi sembrano enormità costituzionali così impensabili che - mentre scrivo - mantengo comunque una certa riserva mentale. Spero, cioè, di sbagliarmi di grosso. Dicevo: in altri termini, la Corte Costituzionale sembra consentire con quella parte della dottrina che ritiene gli stessi "controlimiti" come sussunti all'interno dei Trattati e degli altri atti di analogo rango dell'Unione. La decisione Taricco andrebbe disapplicata in Italia non tanto perché incompatibile con l'art. 25, Cost., quanto piuttosto perché tale articolo sarebbe la declinazione italiana di un più ampio principio, diffuso nelle Costituzioni dei vari Stati membri, come tale incorporato dalla Carta di Nizza. Il che, a contrario, significa che un "principio costituzionale" proprio del nostro Paese e non di altri potrebbe non essere riconosciuto come tale dalla stessa Corte Costituzionale ove confliggente con singole disposizioni dei Trattati e dunque, da ultimi, con l'art. 11, Cost. Ogni riferimento alla Costituzione economica della Repubblica e alla tutela dei risparmiatori è, ovviamente, assolutamente voluto. Mi sarebbe piaciuto, da questo punto di vista, una pronuncia della Corte Costituzionale in ordine alle regole sul bail-in).

(III.b) Concludendo

La posizione della Corte solleva, secondo me, più di una preoccupazione. In particolare, quella relativa alla possibile lettura dell'ordinanza come una nascosta e paludata ammissione di subordinazione delle specificità costituzionali italiane al diritto comune dell'UE nei molteplici settori di cui al Trattato di Lisbona. Subordinazione che, pertanto, invaderebbe gran parte della Costituzione economica e, per quella via, finirebbe per incidere da un lato sui diritti fondamentali del cittadini (perché se non c'è lavoro non c'è neppure dignità), dall'altro sulla stessa effettività dei diritti politici (non a caso la sovranità appartiene al popolo anche perché la Repubblica è fondata sul lavoro).
All'indomani della sentenza Taricco (che - se si è capito - è una specie di tsunami devastante rispetto al sistema istituzionale degli settant'anni nel nostro Paese) la dottrina ha evidenziato - ben prima dell'ordinanza in commento - l'inanità di un rinvio pregiudiziale alla CGCE: "dal punto di vista dell'ordinamento UE, vale la pena di sottolineare subito, l'opposizione di un... 'controlimite'... sarebbe senz'altro giudicata illegittima. La situazione è qui strutturalmente identica a quella già affrontata dalla Corte nel caso Melloni [ops: N.d.R.], in cui parimenti si discuteva della possibilità per uno Stato membro (in quel caso, la Spagna) di rifiutarsi di adempiere ad un obbligo di fonte UE... in ragione dell’asserita necessità di non violare il principio del giusto processo, nell'estensione riconosciuta a quel principio dal diritto costituzionale nazionale. In quell'occasione la... Corte, rilevata la compatibilità dell’obbligo di consegna del condannato con il diritto al giusto processo nell'estensione riconosciuta a tale diritto dal diritto europeo, sulla base dell’art. 47 CDFUE e della corrispondente garanzia di cui all'art. 6 CEDU [e questo spiega l'arrabattarsi della nostra Corte a rimettere in gioco questa Convenzione: N.d.R.], negò fermamente che la Spagna potesse opporre la necessità di rispettare le garanzie supplementari riconosciute dalla propria Costituzione per sottrarsi all'adempimento dell’obbligo europeo. La Corte si confrontò, in proposito, con la disposizione di cui all'art. 53 CDFUE – a tenore della quale 'nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti, nel rispettivo ambito di applicazione, dal diritto dell’Unione, dal diritto internazionale, dalle convenzioni internazionali delle quali l'Unione o tutti gli Stati membri sono parti, in particolare... dalle costituzioni degli Stati membri' –, negando che tale disposizione 'autorizzi in maniera generale uno Stato membro ad applicare lo standard di protezione dei diritti fondamentali garantito dalla sua Costituzione quando questo è più elevato di quello derivante dalla Carta e ad opporlo, se del caso, all'applicazione di disposizioni di diritto dell’Unione'. Insomma: secondo Melloni, è la Corte che stabilisce se un obbligo eurounitario sia o meno compatibile con i diritti fondamentali, così come riconosciuti a livello europeo; una volta riconosciuta tale compatibilità, lo Stato membro è tenuto a dare esecuzione all'obbligo, anche se per ipotesi esso contrasti con il proprio diritto costituzionale". Amen.
Lo stesso Autore, inoltre, sia pure nel quadro di un'apologetica del vincolo esterno anche in materia penale che, francamente non condivido affatto ("i... giudici... rilevano oggi l’assurdità di questa situazione [della prescrizione], che toglie ogni credibilità alla giustizia penale italiana a fronte di fenomeni criminali tutt'altro che bagatellari; e richiamano i loro colleghi italiani, a fronte dell’assordante silenzio del loro legislatore, a porvi direttamente rimedio, quanto meno con riferimento alla materia dei reati che offendono gli interessi finanziari dell’Unione: un legislatore appena razionale a questo punto non dovrebbe però tardare a intervenire, attraverso un'organica disciplina della prescrizione, non foss'altro che in omaggio a un'elementare esigenza di certezza del diritto: valore che potrebbe essere non poco scosso dalle ripercussioni di questa sentenza, il cui contenuto precettivo per il giudice penale italiano non è proprio chiarissimo..."), evidenzia come la disapplicazione pura e semplice della sentenza Taricco rappresenterebbe un modo per "sfidare apertamente il principio del primato del diritto eurounitario, su cui si base l’intera costruzione
giuridica dell’Unione europea".
È questa - non della sfida, ma della chiarezza - la strada intrapresa dalla Corte Costituzionale tedesca nella celeberrima sentenza del 30 giugno 2009 (qui: ovviamente in questa sede sfioriamo soltanto le considerazioni riportate nella decisione, per non disperdere il discorso). La Corte ha bensì ritenuto conforme alla Costituzione l’adesione al Trattato di Lisbona, ma ha posto requisiti molto stringenti al processo di integrazione (soprattutto in materia penale, per rimanere in tema); e ciò - pur in mancanza di una disposizione chiara ed equilibrata come il nostro art. 11, Cost. - proprio per garantire il rispetto della sovranità del popolo tedesco, che rischierebbe altrimenti di essere svuotata. "Perno della sentenza è il diritto di voto del cittadino tedesco..., che la Corte adopera come leva processuale-costituzionale per poter effettuare nell'ambito di un ricorso individuale... una completa disamina del Trattato di riforma. Il pericolo di una violazione del diritto di voto sussiste, ad avviso della Corte, sotto un triplice profilo: il diritto all'elezione dei deputati al Bundestag tedesco potrebbe essere 'svuotato' in seguito ad un ampio trasferimento di competenze all'Unione. La Corte intende, inoltre, il diritto di voto come un (ampio) diritto pubblico soggettivo, con il quale viene reso censurabile il principio democratico: da un lato, l’art. 38, Abs. 1, primo periodo, GG, fonderebbe attraverso il vincolo dell’Unione europea ai principi democratici, presupposto nell'art. 23, Abs. 1, primo periodo, GG, l’esigenza di una sufficiente legittimazione democratica del potere sovrano europeo; dall'altro, la Corte desume dall'art. 146 GG, secondo cui la Legge fondamentale cessa di avere vigore con una Costituzione votata dal popolo tedesco in libera autodeterminazione, una difesa contro una ulteriore adesione ad uno Stato federale europeo e la conseguente perdita della statualità della Repubblica federale tedesca..." (articolo completo qui). Scrive ancora l'Autore: "merita particolare attenzione la questione, se la competenza indiretta disciplinata nell'art. 83, c. 2, TFUE sia tassativa o se un atto corrispondente possa basarsi anche sulla delega decisiva per la relativa materia. Così, l’opinione dominante parte dal presupposto che sull'art. 325, c. 4, TFUE possano fondarsi anche misure penali per la lotta alla frode... Ciò contrasterebbe tuttavia non soltanto con la interpretazione restrittiva richiesta dalla Corte costituzionale, ma anche con la sistematica delle competenze pattizie dell’Unione, posto che l’assunzione della competenza indiretta penale indipendentemente dalla relativa competenza".
La materia del contendere è chiara. La sfida può essere lanciata. Ma forse la nostra Corte Costituzionale non se la sente. E per il momento fa ammuina.

2 commenti:

  1. Buongiorno,

    anni fa soggiornai per una notte in una Gasthouse di Bad Rippoldsau. Cenai in un ristorante situato in fondo ad una stradina che si inoltrava tra gli abeti, a qualche minuto dal paese. Non conoscendo il tedesco, scelsi a caso dal menu propostomi da uno dei due gestori (entrambi maschi e baffuti); il dito si poso' su una portata composta di tra ravioli di colore verde accesso, il cui involucro era fatto di pasta di uno spessore esagerato, e il cui ripieno richiese tre giorni per essere digerito.
    Ad oggi, rimane una delle esperienze piu' 'dense' della mia vita; questo articolo pero' ci va vicino.

    Sto celiando.
    Ho fatto molta fatica a leggere, ma il difetto e' mio che mi muovo in ambiti non familiari, non dell'autore, che ringrazio di nuovo per il tempo e lo sforzo.

    Vorrei, se possibile, segnalare una possibile miglioria editoriale.

    Quando si arriva a questo punto:

    >> Nega cioè in radice che vi sia in questo caso alcuna violazione del principio di legalità.


    sarebbe utile, per i completamente profani, sapere in cosa consiste il suddetto pincipio. La risposta arriva alcuni paragrafi dopo:

    >> è soggetto ai principi fondamentali di "legalità" ( ).


    Potrebbe essere utile esaminare la possibilita' di muovere la spiegazione in una posizione diversa, in modo che chi legge arrivi a quello che e' uno dei punti fondamentali gia' equipaggiato con una definizione minima.

    Buona giornata,

    IPB


    PS
    Ricordo che la signora che gestiva la Gasthouse aveva la faccia triste quando parlava della Germania: mi disse nel suo inglese stentato 'the economic situation is not good'. Eravamo sicuramente prima del 2006.

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