(Oggi si parla davvero di diritto. Però in italiano. Dunque, per i super-esperti, si fa sin da subito presente che mancano nel testo qui sotto le seguenti parole: ultroneo, ermeneutica, teleologico, eziologia. Detto questo: sebbene la questione fuoriesca un po' dalla consuetudine di questo blog, la sentenza mi pare davvero interessante, ed un chiarimento sul mobbing comunque utile).
È stata di recente depositata una importante sentenza della Corte di Cassazione (sent. n. 22635 del 2015), che ha chiarito come, anche nel caso in cui il giudice non accolga una domanda di riconoscimento di mobbing (basata su una serie di circostanze tra cui quella, provata, di avvenuto demansionamento), pur tuttavia il datore di lavoro può essere condannato al risarcimento del danno biologico (e alla professionalità) subito dal dipendente proprio in connessione del citato demansionamento.
La pronuncia, come detto, risulta particolarmente interessante.
Per prima cosa, ci dà l'occasione per chiarire che cosa è il mobbing. In Italia, un reato con questo nome non esiste. Esistono però tante norme che, in qualche modo, vi si ricollegano: in campo civile e amministrativo gli artt. 2049, 2087 e 2103 c.c. (obbligo del datore di lavoro di adottare le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro, divieto di demansionamento, responsabilità del datore per i fatti lesivi dei dipendenti: tale responsabilità ex art. 2049 c.c. è trattata espressamente da Cass., 15 maggio 2015, n. 10037), il D. Lgs. n. 81 del 2008 (tutela della salute nei luoghi di lavoro) e l'art. 15 dello Statuto lavoratori (norma che sanziona gli atti discriminatori in danno del lavoratore); in sede penale gli artt. 572 c.p. (maltrattamenti a persona sottoposta all'altrui autorità), 582 e 610 c.p. (lesioni e/o minacce anche psichiche), 594 e 595 c.p. (ingiuria e diffamazione). In generale, comunque, si definisce il mobbing come una serie di atti vessatori, collegati tra loro allo scopo precipuo di produrre l’emarginazione del soggetto passivo.
(I) Una "serie" di atti vessatori: vi devono essere dunque plurimi comportamenti di carattere persecutorio, posti in essere contro la vittima in modo sistematico e prolungato nel tempo (senza che gli atti debbano necessariamente essere illeciti: v. Cass., sent. 19 gennaio 1999, n. 475, in relazione a continue visite fiscali). (II) Con uno "scopo" che li colleghi: vi deve essere l'elemento soggettivo, rappresentato da un intento persecutorio comune a tutti i comportamenti. (III) Tali da produrre un danno: va dunque provato il nesso causale fra comportamenti e pregiudizio del lavoratore.
Scrive Cass., sent. 31 maggio 2011, n. 12048 (per chi è interessato: v. Lavoro nella Giur., 2011, 8, 844; Dir. e Pratica Lav., 2012, 1, 64; Dir. e Pratica Lav., 2013, 26, 1683): "per mobbing si intende una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione e di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisio-psichico e del complesso della sua personalità".
Per capire se determinati comportamenti risultano mobbizzanti, si fa talvolta riferimento al c.d. "Metodo Ege", che isola sette requisiti specifici: Ambiente (il conflitto deve svolgersi sul posto di lavoro), Frequenza (le azioni ostili devono accadere almeno alcune volte al mese), Durata (il conflitto deve essere in corso da almeno sei mesi), Tipo di azioni ostili (almeno due tipi tra: (i) attacchi ai contatti umani, (ii) isolamento sistematico, (iii) cambiamenti di mansioni, (iv) attacchi alla reputazione, (v) violenza e minacce di violenza), Dislivello tra gli antagonisti (la vittima è in una posizione costante di inferiorità).
Chi è vittima di mobbing può pacificamente chiedere gli eventuali danni esistenziali, nel quadro, fra l'altro, di una azione di natura contrattuale (ex art. 2087, c.c.).
Dunque, dal punto di vista dell'onere della prova, grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver ottemperato all'obbligo di protezione dell'integrità psicofisica del prestatore, mentre grava sul lavoratore l'accertamento della correlazione tra lesione alla integrità psicofisica e l’eventuale inadempimento datoriale; dal punto di vista del contenuto, ai sensi dell’art. 2059 c.c. "il danno non patrimoniale deve essere risarcito... nei casi determinati dalla legge" (intendendosi per "casi di legge" tutti quelli che comportano la "lesione di un interesse costituzionalmente garantito": C. Cost., sent. n. 203 del 2013). Tale danno non patrimoniale, denominato nei più svariati modi (danno morale, quale turbamento transeunte dello stato d'animo; danno biologico, cioè la lesione psico-fisica della persona, suscettibile di accertamento medico-legale, che incide sul suo quotidiano e sulle sue relazioni ma che prescinde dalla sua capacità reddituale; danno esistenziale, che, ledendo altri diritti costituzionalmente tutelati, compromette la possibilità di svolgere le attività che realizzano la persona umana), è tuttavia una "categoria generale, non suscettibile di suddivisione" se non a livello descrittivo (cfr. sul punto la nota Cass., SS.UU., sent. n. 26972 del 2008).
Secondariamente, il rapporto tra mobbing e demansionamento. Da quanto precede si capisce, dunque, che il solo demansionamento non è di per sé mobbing, "occorrendo [piuttosto], al fine della deduzione del mobbing, anche l’allegazione di una preordinazione finalizzata all'emarginazione del dipendente” (Cass., ,sent. 2 aprile 2013, n. 7985)
La sentenza in commento è però, da questo punto di vista, piuttosto innovativa: secondo la Cassazione, infatti, le domande risarcitorie (il c.d. petitum) devono essere individuate dal giudice (che, come è noto, non può giudicare oltre quanto richiestogli) non soltanto sulla base di quanto riportato nelle conclusioni dell'atto di citazione, ma partendo dalla verifica del "contenuto sostanziale" dell'intero atto introduttivo. Dunque,secondo la Suprema Corte, nella domanda di risarcimento da mobbing è ricompresa, di per sé, anche quella, di minor portata, volta al risarcimento dei danni da demansionamento. Il giudice che esclude che il semplice demansionamento (provato in giudizio) integri la più ampia fattispecie di mobbing (non provata in giudizio) ben può condannare il datore di lavoro per la violazione acclarata (art. 2103, c.c.), anche senza una specifica richiesta in tal senso da parte del dipendente. (Tralascio qui i riflessi della modifica dell'art. 2103, c.c., portata dal Jobs Act: ne parlo qui e qui).
Ma come individuare i "danni"? E come valutarli?
Intanto, chiariamo che, anche in questo caso, la responsabilità datoriale ha natura contrattuale (ex art. 2103, c.c., anziché ex art. 2087, c.c.).
Ciò premesso, secondo alcuni al lavoratore demansionato deve essere riconosciuto un danno risarcibile da quantificare in via equitativa senza che la necessità per l'attore di provare alcunché (p.e. Cass. n. 11727 del 1999; Cass. n. 10713 del 2010; Cass., n. 7667 del 2013), mentre secondo più ampia corrente giurisprudenziale, è onere del lavoratore la “specifica allegazione” dei pregiudizi subiti in campo sia reddituale sia relazionale. Cass., SS.UU., sent. n. 6572 del 2006 ha confermato questo secondo indirizzo (nesso di causalità fra inadempimento e danno, ai sensi dell'art. 1223, c.c.; precisazione di quale, fra le molteplici forme di danno da dequalificazione, il lavoratore ritenga di aver subito, fornendo, a tal proposito, ogni elemento utile per la ricostruzione della loro entità); tuttavia, ancora Cass., sent. 9 settembre 2014, n. 18965, ha riaffermato la legittimità della liquidazione in via equitativa del danno, purché siano indicati "i criteri seguiti per determinare l'entità del risarcimento, risultando il... potere discrezionale [del Giudice di merito] sottratto a qualsiasi sindacato in sede di legittimità solo allorché si dia conto che sono stati considerati i dati di fatto acquisiti al processo come fattori costitutivi dell'ammontare dei danni liquidati".
(Tanto vi dovevo).
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