Un caro amico, leggendo il post precedente, mi ha fatto notare che io sono sempre il solito pessimista, che insomma la modifica delle regole sul demansionamento non è poi così male, che fior di professori di diritto del lavoro hanno notato che si tratta di tanto rumore per nulla.
Sì, perché ora la nuova parola d'ordine è questa: "e che sarà mai?". Prima era: "ma la Spagna!...". Poi la Spagna ha perso, diciamo, un po' di appeal.
Ora, dicevo, è tutto uno sbracciarsi a dire che sì, insomma, qualcosa con il Jobs Act è cambiato, ma non poi tanto signora mia, perché già prima diciamocelo... ecc. ecc..
In questo quadro si situa anche l'articolo (tra l'altro pregevolissimo, vera miniera di riferimenti giurisprudenziali) del prof. Miscione, secondo cui, in buona sostanza, il nuovo art. 2103 c.c. finirebbe per "limitare" e non "ampliare" le ipotesi di legittimo demansionamento.
Apro parentesi per i pochi interessati, gli altri vadano direttamente al paragrafo di sotto.
La giurisprudenza. nel tempo, aveva ridotto l'ambito di efficacia della disposizione inerente la "promozione automatica" del dipendente addetto a mansioni superiori, o facendo ricorso al concetto di "mansioni promiscue" (Cass., 3 novembre 2003, n. 16461) o a quello di "carattere vicario delle mansioni" (Cass., 13 maggio 2004, n. 9141). Si era poi stabilito che - ferma restando la garanzia prevista dall'art. 2103, c.c., che vieta(va) l'indiscriminata fungibilità di mansioni per il solo fatto dell'accorpamento convenzionale delle stesse in "aree" - era comunque possibile porre meccanismi convenzionali di mobilità orizzontale prevedendo, con apposita clausola, la fungibilità funzionale tra mansioni per sopperire a contingenti esigenze aziendali ovvero per rendere possibile la valorizzazione della professionalità dei lavoratori (cfr. Cass., SS.UU., 24 novembre 2006, n. 25033). Ancora, era stata sottolineata la "regola del bilanciamento del diritto del datore di lavoro a perseguire un'organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e quello del lavoratore al mantenimento del posto, con la conseguenza che nei casi di sopravvenute e legittime scelte imprenditoriali, comportanti l'esternalizzazione dei servizi o la loro riduzione a seguito di processi di riconversione o ristrutturazione aziendali, l'adibizione del lavoratore a mansioni diverse, ed anche inferiori, a quelle precedentemente svolte, restando immutato il livello retributivo, non si pone(va) in contrasto con il dettato codicistico, se essa rappresenti l'unica alternativa praticabile in luogo del licenziamento per giustificato motivo oggettivo" (Cass., 5 aprile 2007, n. 8596). Infine, si era resa legittima la pratica di adibire a mansioni inferiori il dipendente nel corso di scioperi (Cass., 4 luglio 2002, n. 9709) oppure per esigenze particolarmente gravi e improrogabili (Cass., 12 luglio 2002, n. 10187). Molte ipotesi, dunque, ma spesso di natura residuale oppure scaturenti da singoli comportamenti volti obiettivamente a sfruttare la norma in contrasto con la buona fede che dovrebbe sottostare a ogni rapporto contrattuale (anche di lavoro subordinato).
Ora, è noto a tutti, ivi compreso al prof. Miscione, che al parco giochi tutte le mamme ed i babbi - onde ridurre l'esuberanza dei rispettivi pargoli - non si rivolgano ai medesimi urlando: "guai a te se corri!", bensì: "tesoro, corri pure, ma evita di sudare oltremodo, oppure se sudi, ricordati di togliere la felpa e poi rimetterla, per non prendere il raffreddore!". Lo stesso vale per il legislatore. Siccome il divieto non era rispettato, sarà sicuramente più rispettata la mezza concessione. Quelli acculturati sicuramente controbatteranno parlando dell'inutilità delle Gride manzoniane. Ma siccome nel nostro caso non c'entrano nulla, evito di rispondere.
Al di là delle battute, ripeto che, a mio avviso, si tratta di una delle norme più subdole del Jobs Act. Si prenda il comma 2, che di fatto rende legittimo il "mini-demansionamento" (un livello, uno solo: ricorda un po' la buona vecchia "modica quantità"). (Apro parentesi: la disposizione si applica se - vi è una "modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore": lo ribadisco perché, a quel che mi pare di sentire in giro, non a tutti i datori di lavoro è chiaro. Chiude immediatamente la parentesi).
Oppure si prenda il comma 6, quello, mitologico, che permette di essere demansionati per "migliorare le proprie condizioni di vita" (immagino che la norma sia stata scritta dallo stesso che sta tagliando la sanità per migliorare la salute degli Italiani), con ciò rendendo valido - checché ne dica il comma 9 - ogni "patto contrario" individuale, purché stipulato in sede protetta (sull'effettività della protezione, non mi dilungo onde evitare querele: non sono abbastanza ricco). Si tratta, a mio modestissimo avviso, di una norma aberrante, sia per i principi che sottende, sia - soprattutto - perché (checché ne dicano i cattedratici) dà ai datori di lavoro con minori "anticorpi etici" il falso messaggio che, anche in tema di demansionamento, ormai "tutto si può".
E però... c'è un però. E il però è che, sempre secondo me, ma - incidentalmente - anche secondo qualcuno che conta molto più di me, il sullodato comma 6 è simpaticamente incostituzionale per clamoroso eccesso di delega. L'art. 1, c. 7, lett. e), L. n. 183 del 2014 (che, ricordo, sarebbe il vero e proprio "Jobs Act") parlava infatti di "revisione della disciplina delle mansioni, in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale", nonché di "previsione che la contrattazione collettiva, anche aziendale ovvero di secondo livello, potesse individuare ulteriori ipotesi rispetto a quelle" testé citate. Nulla diceva, invece, riguardo a questi fantomatici accordi individuali, ancorché "sindacalmente assistiti".
De hoc, satis.
P.S.: Per chi fosse interessato: Miscione, in Lavoro nella giurisprudenza, 2015, 5, 437; De Luca, in Lavoro nella giurisprudenza, 2015, 4, 349.
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